Via Caestani a Roma, il ritrovamento del corpo di Aldo Moro, 9 maggio 1978 - Ansa
Più di 50 anni fa l’Italia aveva un altro volto. Il volto della lotta armata, dei poteri forti, dei movimenti violenti di estrema destra e di estrema sinistra, il volto degli anarchici. Il volto di chi non amava il posto dove viveva, la società in cambiamento, le persone che governavano o che avrebbero potuto governare. History Channel, in esclusiva da questa sera (ore 21), presenta lo speciale Italia ‘70 – 10 anni di piombo, che il regista Omar Pesenti ha scritto insieme a Michele Danesi e Massimo Vavassori. Anche se il titolo evoca gli anni Settanta, si parte dal 1968, l’anno delle manifestazioni violente degli universitari, l’anno in cui si reclamavano principi fondamentali e rivoluzionari in nome però della fine della pace sociale e della fiducia nelle istituzioni democratiche. Un anno di passaggio che determinerà quello che, poi, sarà definito il periodo della strategia della tensione, iniziato già da quando il 19 novembre 1969, durante una manifestazione, viene colpito mortalmente il giovane poliziotto Antonio Annarumma. L’odio fomenta le menti dei reazionari e, dopo quasi un mese, cinque deflagrazioni scoppiano in tutta Italia il 12 dicembre 1969. L’unico ordigno che sarà letale è quello posizionato nella sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura a Piazza Fontana: 17 persone vengono uccise e 88 rimangono ferite. «Ci furono tre funerali pubblici in quel lungo mese che inizia il 21 novembre e termina il 21 dicembre», racconta Fortunato Zinni, uno dei sopravvissuti alla bomba di Piazza Fontana. «Il primo fu quello del giovane poliziotto Antonio Annarumma. Il corteo passò sotto le finestre del mio ufficio: Ampelio Spadoni guidava una foltissima delegazione del Movimento Sociale e quel funerale, che di taciturno non aveva niente, è iniziato con i saluti fascisti ed è terminato in una caccia all’uomo di fronte al San Carlo». Il terzo fu quello dell’anarchico Giuseppe Pinelli, in cui la silenziosa celebrazione funebre si concluse con il canto Addio Lugano Bella, mentre il secondo, quello per le vittime di piazza Fontana, fu quello più silente e partecipato. In quell’Italia così divisa c’erano ancora centinaia di migliaia di persone che non si rassegnavano a quelle che furono, dopo la seconda guerra mondiale, le pagine più sanguinose della storia nazionale perché, negli anni, morirono 428 persone e ne furono ferite 2000. «Durante i funerali delle vittime della strage di piazza Fontana – prosegue Zinni – i cittadini presenti sul sagrato del Duomo di Milano hanno impedito la proclamazione dello stato d’emergenza (che era l’obiettivo della parte politica che aveva pensato alla strage) e l’incredulità crescente di quella parte inquirente che considerava gli anarchici i mandanti ed esecutori della strage. Quel giorno in piazza Duomo non si manifestava, non si sentivano grida, non c’erano striscioni, simboli di partito o bandiere ma c’erano solo volti impietriti: la solidarietà di quella gente era così evidente, forte e palpabile a tal punto da commuovere. Quando le bare delle vittime furono portate fuori dalla Chiesa in quel silenzio, più roboante di mille bombe, tuonarono solo le parole dell’allora cardinale Giovanni Colombo che affermò: «Ancora una volta Caino ha ammazzato Abele». La stampa seguì quegli eventi, però poche furono le donne coinvolte nell’inchiesta. A qualcuna, addirittura, le si suggerì di occuparsi di moda. Gli errori commessi nel tempo furono tanti come lo spostamento della sede del processo per la strage di piazza Fontana da Milano a Catanzaro «per ragioni di ordine pubblico». Quelle ragioni escludevano di fatto le 17 vedove delle vittime: loro, infatti, non poterono essere parte lesa attiva di tutte le 268 udienze che si svolsero in Calabria, regione raggiungibile dopo quasi 20 ore di treno e autobus.
In questo speciale in prima visione sul canale History Channel, che racconta efficacemente un decennio italiano, ci sono anche altre testimonianze di chi ha vissuto quei tragici eventi come Manlio Milani, che si trovava nei pressi di Piazza della Loggia a Brescia quando la deflagrazione tolse la vita alla moglie e Franco Bonisoli, che da manifestante diventò brigatista rosso fino a macchiarsi del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro: si pentì, dopo la condanna ai quattro ergastoli, e si dissociò dalla lotta armata fino a diventare amico di Agnese, la figlia di Aldo Moro. «Quando entri nella logica della guerra – spiega Bonisoli alla fine del documentario – dividi il mondo in buoni e cattivi, definisci quali siano i tuoi nemici e decidi come puoi annientarli fisicamente. Quando si agisce in questo modo si tende a trasformare la persona in un oggetto e ci si dimentica che quell’uomo e quella donna hanno una famiglia, hanno sogni, desideri, responsabilità civili e ci si focalizza solo sulla funzione che ricoprono. In questo processo di reificazione elimini l’umanità a colui che reputi un tuo nemico e quindi di conseguenza elimini l’umanità anche a te stesso».