Qualcuno forse ricorderà Maria Laura Baccarini, performer romana classe 1966, nelle vesti di “fatina” a
Pronto chi gioca: programma nel quale entrò da
vedette del corpo di ballo Rai dopo un passato da nazionale di ginnastica ritmica. Altri avranno bene in mente il suo nome quale vero punto di riferimento del boom del musical italiano: quando fu protagonista di
West Side Story,
Gigi,
A chorus line e soprattutto quel
Cabaret in cui vestiva i panni di Sally Bowles, sul grande schermo indossati da Liza Minnelli. Però solo chi non conosce il percorso recente della Baccarini, da tempo di stanza in Francia e lì premiata interprete di teatro, docufilm, letteratura frammista a prosa, un magnifico tributo a Cole Porter, un lavoro sul commediografo Stephen Sondheim e persino un paio di dischi fra jazz e avanguardia, potrà ora stupirsi di ritrovarla in Italia da oggi a domenica al Piccolo Eliseo di Roma quale interprete di
Gaber, io e le cose. Ovvero un azzeccato e raffinato viaggio nel complesso e attualissimo “teatro canzone” di Gaber e Luporini, che Maria Laura porta in giro per i palchi – fra i pochissimi a farlo senza compromessi, tradimenti o banalizzazioni – ormai da diversi anni. Con scelte stupende di repertorio, che senza paure è il vero centro gaberiano (
Il dilemma, Il dio bambino, L’uomo muore, Il luogo del pensiero, Polli di allevamento, Il Grigio), arrangiamenti contemporanei di violino ed elettronica figli del genio rispettoso ma originale del compositore Régis Huby, e il seguente commento del solitamente taciturno Sandro Luporini, coautore di tutto Gaber: «È uno dei pochi casi in cui si cantano non solo le note, ma soprattutto le parole».
Gaber, io e le cose, ora anche su cd, dopo una
rentrée italiana nelle Marche in aprile andrà in tour addirittura tra Finlandia, Estonia e Lettonia. Perché Maria Laura Baccarini non è più la “fatina” della tv: ma forse, stante la sua serietà, riesce a osare la magia di far davvero cultura fra teatro e musica, senza “usare” Gaber e soprattutto senza frontiere.
Cosa l’ha portata dall’Italia alla Francia?«Ci arrivai nel 2004 con un tour sulla musica americana del Novecento, ma non sono fuggita: forse è stata la voglia di cambiare, di costruire un nuovo rapporto specie con la musica. E lassù ho capito cosa significhi essere interprete senza personaggi, contesti, storie: insomma senza protezione. Questi anni sono serviti a crescere, responsabilizzarmi, fare scelte coraggiose».
Quando è nato Gaber, io e le cose?«Diversi anni fa, partendo dall’Italia. Ma in Francia farlo è stato entusiasmante e sorprendente, se pensa che là Gaber non è noto: mentre anche il disco è stato accolto con entusiasmo da una critica che ha percepito quale centro la forza dei testi».
Lo spettacolo è una drammaturgia originale, non un mero recital: come mai questa scelta?«L’angelo custode è la scrittrice viareggina Elena Torre, grande conoscitrice di Gaber. Mi ha incoraggiato a non pormi limiti e sono partita dai testi, dai significati, a volte senza neppure sapere se fossero canzoni o monologhi. Il
fil rouge che si è tracciato è l’essere umano che si interroga sui temi dell’esistenza: quell’essere sono io, ma i temi sono universali, chiunque alla fine può ritrovarvisi».
Oltre a quanto citato sopra, Luporini che ha detto?«Il regalo più bello fu il suo abbraccio commosso dopo una data toscana. Io posso solo dirgli grazie».
A distanza di anni, ci sono parti di Gaber invecchiate?«No, l’analisi dell’uomo non ha tempo, io cambio e i testi mutano con me. Semmai brani come
Mi fa male il mondo, con quelle “facce dei nostri figli con stanchezza anticipata per ciò che non troveranno”, è sintesi perfetta e lacerante dell’oggi che stiamo vivendo».
Essere donna ha reso complicato interpretare Gaber?«Prima di cominciare ci ho pensato molto. Leggendo i testi però ogni dubbio si è dissipato: in realtà era inconsistente come problema, per come scrive Gaber».
Le scelte musicali spiazzano: pure qui, niente paura?«Huby, francese, non aveva il peso dell’icona-Gaber, e anche lui ha scoperto i testi: finendo col creare paesaggi sonori minimalisti in cui le parole sono al centro di tutto com’è giusto accada».
Ma quanto è dura cantare Gaber? E soprattutto, è necessario essere anche attori, com’era lui?«La paura c’è: aveva potenza espressiva, passione, coerenza, coraggio, contenuti… Però le sue canzoni vivono grazie a ciò che raccontano, e questo fa capire perché i grandi sopravvivano alla loro morte. L’ho approcciato con discrezione, a modo mio: certo conta essere attrice, ma pure la propria maturità».
Cosa si aspetta da Gaber in Finlandia?«Sarà interessante: prefazione in inglese, poi tutto in italiano. Mi affido alla forza evocativa della nostra lingua… Prima però, dall’8 al 10 aprile, a Parigi organizzo un evento su Gaber: conferenze con grandi esperti, il mio spettacolo, Cristina Marocco che interpreterà il Gaber degli anni Sessanta».
Ma lei ripartirebbe dalla tv, oggi? E a una ragazza, visto che lei insegna, lo consiglierebbe?«Mi sembra la vita di un’altra, pensare alla mia tv: non c’entra nulla col mio percorso. Tra i giovani di oggi ne vedo tanti di talento, intelligenza e coraggio: ed è questo che conta davvero. Fra l’altro, insegnando, io stessa ho imparato tantissimo: è bello aiutare i ragazzi proprio a mettersi in gioco».
Chiudiamo con Gaber: qual è il centro della sua opera?«Difficile.
Il Grigio fa una radiografia impietosa dell’uomo in questi tempi malandati,
Il dio bambino parla di vite che non lasciano traccia, di eterni immaturi… A me personalmente affascina il suo profondo amore per l’essere umano, nonostante tutto, e il sapersi sporcare con la vita. Nonché la coscienza che, le cito un verso, “senza due corpi e due pensieri differenti non c’è futuro”».