Capovolgimenti in pagina: l’ira non è più (solo) un vizio, per di più capitale, ma andrebbe riscoperta anche quale virtù da praticare. Almeno nella sua forma di sdegno, denuncia e indignazione accompagnati dalla «volontà di intervenire sulla situazione per cambiarla». Così intesa l’ira, al quale la tradizione filosofica morale - da Aristotele a Seneca - ha dedicato ampio spazio, diventa «una reazione animata dalla speranza di poter riparare un torto subito». È quanto ha scritto padre Giovanni Cucci sull’ultimo numero di
Civiltà Cattolica, il quindicinale della Compagnia di Gesù. Cucci, intessendo il suo contributo (intitolato «L’ira, una richiesta passionale di giustizia») di dotti riferimenti alle ultime acquisizioni della psicologia, riscatta perciò questo vizio dalla sua «cattiva fama» facendolo entrare nel novero delle virtù. Scrive il gesuita: l’ira «non è di per sé negativa: se il fine e i mezzi da essa perseguiti sono buoni, essa può diventare un sostegno prezioso per compiere il bene, anzi in alcune circostanze e per gravi motivi adirarsi diventa cosa giusta e doverosa». E qui l’articolista di
Civiltà Cattolica cita un passo che la tradizione attribuisce a San Giovanni Crisostomo: «Chi non si adira quando c’è motivo di farlo, pecca». Naturalmente il ragionamento di padre Cucci attinge anche al testo biblico per spiegare quando e come l’ira è «cosa buona»: «Si tratta di una collera che è essenzialmente legata all’amore; l’ira di Dio mette in guardia Israele quando sta violando l’alleanza, incamminandosi verso la morte». Ma l’interpretazione di padre Cucci è corretta? Come la riflessione filosofica e teologica guarda oggi a questo vizio antico dell’ira?«Per Aristotele l’ira è un accecamento delle capacità razionali dell’uomo, uno scatto che spinge all’atto inconsulto ed è parente della follia: basti pensare all’ira di Achille - esordisce
Salvatore Natoli, docente di filosofia morale all’università Bicocca di Milano e attento pensatore della condizione umana -. Ma sempre secondo Aristotele, e la stessa visione greca, l’uomo deve essere dotato, in un certo senso, di coraggio, ovvero d’ira, ad esempio durante una battaglia. Sia la tradizione classica che la Bibbia ammettono la reazione dell’uomo all’insopportabilità dell’ingiustizia subita». Dunque Natoli concorda sul carattere moralmente ambiguo di tale difetto adombrato da
La Civiltà Cattolica: «L’ira è un concetto oscillante. La sua correttezza dipende dalla quantità di ragionevolezza che l’ha accompagna». E oggi, secondo il filosofo siciliano, sarebbe opportuno un surplus d’ira nella forma di «indignazione fattiva: non contro l’altro ma nei confronti delle situazioni che non possono essere accettate. Penso alla trasandatezza diffusa nel fare le cose e all’indolenza che causa ritardi». In concreto, quando è giusto adirarsi oggi? «Di fronte ad episodi di malasanità, all’amministrazione lenta della giustizia, alle urgenze dei cittadini che non vengono rispettate» annota Natoli. Che chiosa: «Potremmo definire l’ira giusta come "l’intolleranza nei confronti del male". Certo, ci vuole una "misura" nell’indignazione; come insegna Kant, la persona è sempre degna di rispetto. Ma sulle situazioni, spesso è giusto è indignarsi».Una che si indigna di certo … per il fatto che non ci si adiri più di nulla è
Cettina Militello, la prima teologa "ufficiale" in Italia, oggi professoressa di ecclesiologia alla Pontificia università Marianum di Roma. «E’ giusto adirarsi sulla mercificazione del corpo della donna, bisogna urlare sulla violenza che si scatena nelle famiglie. E invece abbiamo smesso di indignarci, quando invece esiste un "santo sdegno" da praticare. I motivi sono sotto i nostri occhi: uno sviluppo non sostenibile, l’ingiustizia economica, il culto della libertà e del profitto a tutti i costi, lo stato misero della classe politica, dove gli eletti cambiano casacca con disinvoltura». Ma come si concilia questo "santo sdegno" con la virtù cristiana del perdono? «Quest’ultimo è fuori discussione - replica Militello -. Il nodo non è demonizzare la persona bensì condannare la situazione. Con le persone devo sempre dialogare ma essendo ferma sui valori in gioco. L’ira è l’attitudine dei veri profeti».E infatti Gesù di Nazareth viene anche descritto adirato nei vangeli: l’immagine che viene alla mente è la cacciata dei mercanti dal tempio. «Ma il termine "ira" ricorre propriamente nel brano di Marco (3,5) quando Gesù guarisce l’uomo dalla mano inaridita. Egli si adira per l’incredulità degli astanti - annota don
Bruno Maggioni, ordinario di esegesi neotestamentaria alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e tra i più noti biblisti in Italia -. In tale episodio l’ira di Gesù è dettata dall’amore per i presenti: Cristo si arrabbia con loro per la durezza del loro cuore, perché fanno una scelta, quella di non credere in lui, che va contro loro stessi. È giusto arrabbiarsi quando si vuole troppo bene a qualcuno, non nel caso in cui qualcosa ci dia fastidio. L’ira d’amore avviene se qualcuno compie delle decisioni che fanno male a se medesimo, non perché egli infrange semplicemente un’astratta norma morale».