giovedì 8 dicembre 2022
Nella riflessione di Raul Gabriel i nuovi spazi della tecnologia sono un banco di prova per concetti antichi a partire dal rapporto tra reale e copia
Raul Gabriel, “Wake Up - Keybourn series”, 2016, particolare

Raul Gabriel, “Wake Up - Keybourn series”, 2016, particolare - Collezione privata

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Pubblichiamo parte della prefazione di Roberto Diodato, ordinario di Estetica presso l’Università Cattolica di Milano, al volume di Raul Gabriel Il gesto digitale. L’arte nello spazio del virtuale (pagine 192, euro 15,00), nuovo titolo della collana "Pagine Prime" pubblicata da Vita e Pensiero in collaborazione con “Avvenire”. Il volume è una inedita e innovativa riflessione sulle questioni del digitale a partire dalla pratica di artista per allargarsi in senso più ampio alle domande aperte dalle nuove tecnologie su temi come realtà, ibridazione, linguaggio. Punto fermo è l’esperienza del corpo, che resiste e si prolunga in uno spazio che solo per convenzione chiamiamo virtuale.

Davvero il digitale sarebbe lontano dalla materia, dalla carne? Davvero analogico e digitale sarebbero due cose, o due modi dell’essere, facilmente distinguibili? Davvero il virtuale sarebbe altro dal reale? Siamo così introdotti al primo livello del pensiero di Raul Gabriel: pensare il digitale vuol dire ripensare la filosofia, i suoi concetti, le sue idee più potenti. Per esempio il rapporto tra materiale e immateriale, il rapporto tra corpo e anima, e ancor più e più in profondità, il rapporto tra interno ed esterno, il rapporto tra oggetto ed evento, il rapporto tra tempo e spazio. Ma più che pensare il digitale Gabriel ci insegna a pensare in digitale, e questo significa rifare la filosofia, perché modifica la nostra postura, la nostra corporeità, le nostre capacità estetiche, cioè intuitive, immaginative, emotive, gustative… e quindi il nostro pensiero, perché il pensiero non è mai astratto, e l’idea è la cosa più concreta che ci sia, come fin dall’inizio Platone ha insegnato. Più specificamente, scrive per esempio Gabriel: «Il digitale sembra complicare il tema della mimesi: ancor prima dell’arte che si fa con il digitale, riguarda la concezione e strutturazione del digitale stesso, dell’universo dentro cui si svolgeranno le azioni della creazione. Non sono un filosofo ma questo non mi impedisce di pensare che l’universo virtuale cambi in modo sensibile l’impostazione del problema. Nella sua stessa genesi è implicito un ribaltamento, perlomeno riferito alle categorie comunemente usate: il tipo universale dell’idea coincide con il mondo “reale” e il digitale aspira a esserne l’analogia». Si introduce così, attraverso il ragionamento sulla novità del digitale, una rilevante considerazione a livello dell’ontologia: il nostro rapporto mimetico col mondo, rapporto essenziale per la nostra vita conoscitiva, pratica e poietica, non può essere letto nell’ottica dell’imitazione e della copia, e soprattutto nell’ottica della simulazione, al contrario: il digitale, con il suo portato di virtualità e di interattività, porta a evidenza l’irripetibilità delle nostre operazioni e la singolarità delle opere e degli eventi. In particolare, nell’operatività che diciamo artistica ciò «significa – scrive Gabriel – che la direzione verso cui andare non è l’imitazione. L’idea stessa di rincorsa è senza senso, destinata al fallimento. Lo strumento digitale è semplicemente “altro”. Un altro strumento che risponde ad altre logiche». Ora l’idea di “strumento” è in genere limitante rispetto al digitale, ma non nel senso usato da Gabriel, che l’intende come una estroversione della propria corporeità e del proprio pensiero, come la mano e il pennello, e ancor più il gesto e la scrittura: una parte di noi insomma, che ci fa esistere e operare, oltre la differenza tra tecnica e natura. Il digitale è pensabile allora come medium, nel percorso che procede dall’essere luogo: da medius, luogo del dialogo, di dibattito e anche di scontro, a media, luogo di incontro, atmosfera comune e pervasiva, aria che respiriamo, attraverso il medium, lo strumento. Nell’ottica di Gabriel, a me pare, il digitale è insomma un corpoambiente, un ambiente strutturalmente relazionale ed essenzialmente interattivo che importa una nuova ontologia. Un corpo ambiente che è anche opera e immagina e incorpora il mio corpo, il mio corpo vivo, una realtà intermediaria che si fenomenizza nell’interattività e sfugge alla dicotomia tra “interno” ed “esterno”, che non è “interno” in quanto prodotto cognitivo della coscienza, non è immagine della mente, e nemmeno è “esterno” a essa. Che non è una “rappresentazione” della realtà, bensì realtà che si costituisce in modo analogo, simile e differente insieme, da quelle costituite dalla partecipazione circolare del corpo vivo con il mondo, il quale grazie alla percezione- visione attraversa il corpo e diviene gesto, movimento del corpo, eventualmente mediato da strumenti di riproduzione analogica, e quindi immagine. I corpi-ambienti digitali sono accessi a un mondo dentro il mondo nel quale lo spazio stesso è il risultato di un’interattività, che non accade al modo della presa di distanza, bensì del senso-sentimento dell’immersione, e il corpo, in quanto percepito come altro, assume il senso della sua realtà, della sua effettualità, come incisione patica e immaginaria, come produzione di emozione, di desiderio e pensiero. Il corpo-ambiente digitale è intermediario non soltanto come mediazione tra modello informatico e immagine sensibile, ma primariamente intermediario tra interno ed esterno come facce dello stesso fenomeno, strano luogo in cui il confine diventa territorio. Quindi tali corpi non sono né semplici immagini né semplici corpi, ma corpi-immagini i quali sfuggono alla distinzione ontologica tra “ogsi getti” ed “eventi”, perché, così come gli “oggetti”, hanno una relativa stabilità e permangono nel tempo, ma, così come gli “even-ti”, esistono solo nell’accadere dell’interattività, nella loro singolare irripetibilità. L’individuo che ne risulta è concreto, percepibile e soggetto-oggetto di azioni, ma si tratta di un ibrido dallo statuto ontologico incerto; possiamo anche chiamarlo ente di un mondo non continuo, composto di punti-dati che si manifestano come fluidità e densità e saturano la percezione: un corpo reso leggero dalla digitalizzazione, che ha l’interattività come condizione di manifestazione. Gabriel usa al proposito la suggestiva immagine delle “staminali digitali”: «Probabilmente il dato digitale in sé è staminale. La sua caratteristica principale sembra essere la “potenzialità”, una potenzialità aperta a tutte le direzioni, che non dipende dai vari ambiti ma contribuisce a definirli […] La fisiologia della staminale digitale è l’omologo di quella biologica con una unica differenza: non necessita di una matrice iniziale e non è limitata dalla possibilità di replicazione». Si tratta insomma, in considerazione della sua virtualità, di un corpo-immagine-ambiente che presenta come una cosa del mondo naturale-artificiale, al punto da inserirsi, a me pare, nello spazio aperto dalla celebre, potentissima e paradigmatica distinzione operata dalla Fisica di Aristotele: «Delle cose che esistono, le une sono da natura, le altre da altre cause. Per natura sono gli animali e le loro parti, le piante e i corpi semplici, quali per esempio la terra, il fuoco, l’aria e l’acqua: questi e gli altri corpi dello stesso tipo diciamo infatti che sono per natura. E tutte le cose sopra richiamate è chiaro che non sono differenti rispetto a quelle che esistono per natura. Ciascuna di esse infatti ha il principio del movimento e del riposo in se stessa, le une secondo lo spazio, le altre secondo crescita e diminuzione, altre ancora secondo l’alterazione. Invece un letto o un mantello, e ogni altra cosa di questo genere, in quanto a ciascuna di esse compete questa denominazione – e cioè in quanto essi sono prodotti da tecnica – non possiede in se stesso alcuna tendenza innata al cambiamento; ma essi hanno un tale impulso e tanto esteso solamente in quanto sono di pietra o di legno, o di qualcosa di misto». Ora il corpo-immagine digitale è “certamente” artificiale, prodotto da tecnica, e insieme ha, anzi è, tendenza “innata”, che non dipende dai suoi componenti “naturali” ma dalla sua propria “natura”, al cambiamento, per il suo essere strutturalmente evento. Ibrido dunque artificiale-naturale, in qualche senso quasi sistema “vivente”, non solo oggettoevento, quindi, ma soggetto-oggetto: un ente che esiste in quanto incontro, punto su cui Gabriel insiste, tra una scrittura digitale e un corpo reso a essa sensibile, e quindi come interattività costitutiva, e ciò induce a concepire la relazione (l’incontro) come in sé costitutiva di entità e a costruire un’ontologia, ancora in gran parte inedita, delle relazioni, riconoscente ampliamento dell’arredo del mondo. «Trovo – scrive Gabriel – che il digitale sia capace di restituire grande spolvero a molte questioni secolari della filosofia classica su cui si sono cimentati pensatori di tutte le epoche, in un modo del tutto originale ed estremamente pragmatico». Condivido; eppure tutto ciò è soltanto una parte della ricchezza di questo piccolo libro prezioso, entrare nello studio di un artista, nella mente nel gesto e nello spazio, questo è il resto affascinante e impagabile che questa lettura ci offre.

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