Lech Majewski ha avvertito la presenza di Dio nella natura visitando le cascate del Niagara quando, in una grotta, l’acqua rombava davanti a lui e filtrava la realtà che stava oltre. Come se fosse un quadro che nascondeva molti altri significati. O un poema che traduceva attraverso la parola il mistero dell’Amore assoluto. Il suo cinema è imbevuto di queste esperienze. La pittura di Bruegel il Vecchio (
La salita al Calvario) ha ispirato
I colori della Passione, una meditazione sulla Croce e il sacrificio di Cristo, uscito con inaspettato successo nel 2011. I versi della Commedia dantesca sono, invece, la materia sulla quale s’innestano i sogni e gli incubi di Adam (Michal Tatarek), il protagonista di
Onirica, presentato al Bari Film Festival e sugli schermi italiani dal 17 aprile. Una storia visionaria e simbolica: dopo aver subito la duplice, tragica perdita dell’amata Basia e dell’amico Kamil, davanti a lui si spalanca, nel sonno profondo, lo spazio senza tempo e luogo in cui rivivere i sentimenti di amore e amicizia di un tempo. Un cammino ispirato a quello di Dante, non facile, che oltrepassa l’esperienza sensibile. «Una visione – spiega il regista polacco – in cui è contemplata la totalità della vita e della morte, i due estremi in cui è costretto Adam. Per questo amo Dante. È l’unico poeta che è riuscito a illuminare la mia strada».
Nel corso della sua difficile confessione Adam ammette di non riuscire più a pregare. La natura attorno a lui non è più un rifugio, perché si ribella causando devastazioni materiali, come le inondazioni avvenute in Bassa Slesia nel 2010, anno in cui è ambientato il film, mentre la società polacca è scossa da fremiti e paure, all’indomani della tragedia dell’incidente aereo in cui perse la vita il presidente Kaczynski assieme a molti alti funzionari. A che cosa appoggiarsi?«All’amore, “che move il sole e l’altre stelle”. Il film parla del senso attuale dell’amore. Noi lo consideriamo possibile soltanto quando si instaura tra due persone fisiche e in vita, ma non è affatto così. È una questione profonda, che coinvolge il protagonista e lo spettatore».
La zia Xenia introduce Adam alla filosofia, leggendogli Heidegger, e al mistero dell’essere, della vita oltre la morte. Quasi il ruolo di una profetessa.«Mi sono ispirato alla mia vera zia, che insegnava lingue classiche e traduceva antichi poemi. Con lei ho approfondito così il senso della morte e la grandezza dell’amore. Perché sei tu che decidi chi è morto, non la vita: può esserlo una persona che hai allontanato e non esserlo una persona scomparsa alla quale sei però legato per sempre, appunto oltre la vita. Questo è quanto accade a Adam nel film: non ha relazioni con ciò che lo circonda, ma con chi ha immensamente amato e non abita più la realtà».
Adam non accetta la morte, sognare è il suo rifugio. Perché è così importante per lui?«È una persona, come ne ho conosciute tante, che ha attraversato una grande tragedia ed è morta dentro di sé. Gli rimane il sogno, che lo mantiene in vita. È uno scolaro al quale Dante indica la strada verso il senso di un amore più grande ed eterno. Per questo la morte fisica non sarà la fine della sua storia, ma l’inizio di una nuova. È un eroe dannunziano, o quello tragico di un’opera di Puccini».
La scena finale del suo film è emblematica e grandiosa: una cascata di acqua prorompe dalla sommità di un abside di un maestoso edificio sacro. È il compimento dell’apocalisse i cui segni troviamo disseminati nel film o il momento misterioso di una purificazione e una rinascita?«Io non completo mai i miei lavori racchiudendoli in una logica ferrea, creo immagini che sento potenti dentro di me. L’acqua inonda la chiesa, ma non sommerge i fedeli. Purifica, non toglie la vita».