La definizione sicuramente non gli piace, ma quello che si può considerare l’ « antiOdifreddi » – genovese, sei anni in meno del logico cuneese – ha appena portato in libreria la sua risposta all’ultima ondata pamphlettistica di scientisti contro Dio. Da Daniel Dennett a Richard Dawkins, da Telmo Pievani a Odifreddi e Danilo Mainardi: Roberto Timossi, teologo e filosofo della scienza, ha passato tre anni a raccogliere e vagliare la recente pubblicistica antiteistica uscendone con il tomo L’illusione dell’ateismo. Perché la scienza non nega Dio ( San Paolo, pagine 574, euro 24), che porta una presentazione del cardinale Angelo Bagnasco.
Timossi, qual è l’aporia più diffusa nell’argomentare dei Dawkins e Odifreddi vari? «Direi il riconoscere in base all’epistemologia contemporanea che la scienza è fallibile e limitata, e allo stesso tempo arrivare a conclusioni apodittiche su questioni su cui la scienza empirica per definizione non può esprimersi, come quelle metafisiche o spirituali».
La scienza è conoscenza solida, seppur sempre perfezionabile, e impermeabile alla fede. Come risponderebbe? «Che la scienza stessa ha bisogno, spingendosi in ipotesi non verificabili direttamente, di ' atti di fede'. Le faccio un esempio recente. Il principio cosmologico è quello secondo cui l’universo sarebbe in ogni situazione isotropo e omogeneo, ovvero uguale e soggetto alle stesse leggi in tutte le sue zone. Se non c’è la possibilità della ripetibilità, senza il presupposto che l’universo abbia ovunque le stesse leggi, diventa difficile fare delle affermazioni che abbiano valore, appunto, universale. Recentemente alcuni importanti ricercatori americani che studiano la cosiddetta energia oscura, per spiegare delle anomalie nelle osservazioni sono giunti a mettere in discussione il principio cosmologico. Ne ha dato conto la rivista Scientific American sul numero di aprile. Anche questo è un ' atto di fede'. Come lo sono tutte quelle ipotesi da cui grandi scienziati partono e in cui credono senza avere ancora osservazioni, documentazioni, dati empirici certi per poter dire che è così».
Dopo la sua disamina enciclopedica, quale differenze trova tra la produzione ateistica di lingua inglese e quella italiana? «La produzione italiana risente spesso di un taglio provinciale, quindi scade nella polemica anti- cattolica e anti- ecclesiale, finendo per allontanarsi da quello che dovrebbe essere su questi temi un dialogo, o anche un scontro, alto. Mi viene in mente l’ultimo numero di Micro Mega, che contiene un intervento di Telmo Pievani e Orlando Franceschelli – studiosi che per altre cose apprezzo – contro il cosiddetto 'darwinismo ecclesiastico'. Una polemica su un intervento di monsignor Fiorenzo Facchini e sulla sua prefazione a un recente libro di Francisco Ayala. Una polemica quasi politica, che alla fine ha poco o nulla che fare con il vero dibattito sul rapporto tra scienza e fede. O penso ancora a un intervento di Pievani contro monsignor Ravasi e altri, prima di aver sentito quello che avrebbero detto in occasione del convegno su Darwin organizzato dal Pontificio consiglio della cultura, lo scorso marzo» .
Il tempo passa, Darwin resta uno degli appigli preferiti per lo scientismo ateo. «Sì, anche se penso che lo stesso naturalista inglese – che nelle sue lettere prese le distanze dalle repentine strumentalizzazioni delle sue teorie – sarebbe il primo a schermirsi » .
In due parole, come definirebbe il rapporto corretto tra scienza e fede? «Userei la famosa diade del matematico e filosofo Gottlob Frege: senso e significato. La scienza ci mostra come non sia il caos a prevalere, come esistano delle leggi, un’intelaiatura del reale. Questo è quello che potremmo chiamare il ' senso'. Il problema su cui devono lavorare invece filosofia e teologia, partendo da quanto è mostrato dalla scienza, è quello del ' significato'».
Nel suo libro lei passa in rassegna un numero sbalorditivo di scienziati la cui attività è andata di pari passo con un’apertura alla fede o alla dimensione religiosa. Chi, in questa carrellata, è per lei più significativo? «Gli esempi sono tanti, si potrebbe parlare di Galileo, Lemaître o Mendel. Dovendo sceglierne uno, direi forse il fisico tedesco Max Planck. Planck aveva una proprensione filosofica spontanea, nutrita poi con delle letture specifiche. Aveva una grande apertura al mistero sottostante al reale: la scoperta che l’ha reso famoso, quella dei quanti, è avvenuta in fondo contro quello che lui stesso si riproponeva. Aveva una coscienza chiara del fatto che la scienza non andava contro il bisogno religioso, anzi lo sviluppava, e che il credere in Dio agevolava il lavoro dello scienziato: la sua capacità di meravigliarsi, la sua voglia di fare e scoprire».