Leonardo Sciascia (1921-1989) - archivio
Quando nel 1956 furono stampate Le parrocchie di Regalpetra, per di più nella collana dell’editore Laterza dei “Libri del tempo”, ebbe immediatamente corso un’interpretazione critica di Leonardo Sciascia che, in accordo con lo spirito di quegli anni, lo avrebbe imprigionato a lungo nella formula dell’intellettuale neoilluminista: solo tre anni prima, del resto, Nicola Abbagnano e Norberto Bobbio avevano tenuto a battesimo proprio quel nuovo movimento filosofico. Sono passati molti anni da allora, quella formula critica generosa e frettolosa è stata quasi del tutto archiviata, ma nessuno aveva fatto fino in fondo i conti con le ragioni non banali che stanno alle origini di quello stereotipo. Arriva ora in libreria, a porre la questione nei giusti termini, un libro di Andrea Schembari, Il lume del sentimento. Leonardo Sciascia e il Settecento (Loffredo, pagine 214, euro 20,50). I due sostantivi del titolo, “lume” e “sentimento” (al posto del trionfale e abusato “ragione”), nel mentre attribuiscono centralità ad altre categorie di pari estrazione settecentesca, accolgono una significativa correzione intervenuta nella storia della critica sciasciana all’inizio degli anni Novanta, quando appunto si sostituiva al termine illuminismo quello di “luminismo”, per indicare quel tentativo di ordinare razionalmente la realtà come dentro una luce cristallina, diaccia, che la potesse chiarire, conoscere e redimere. Sulla scorta di tali premesse, Andrea Schembari si rivolgeva opportunamente alla più cogente nozione di “Settecento”, così come Sciascia ce l’aveva restituita nella sua o- pera narrativa e saggistica, per liberarla dei suoi significati contingenti, sollevandola così a un significato di natura metastorica, con notevoli implicazioni critiche e metodologiche, nella stessa direzione in cui – se si vuole – aveva lavorato Ortega y Gasset in un fortunato saggio del 1927, e cioè El siglo XVIII, educador, titolo del resto parafrasato dallo stesso Sciascia (“Il secolo educatore”) e oggetto qui di una brillante analisi. Ortega y Gasset, presenza importante in queste pagine, chissà perché ancora poco considerato tra i principali punti di riferimento di Sciascia: «il Settecento diventa per Sciascia (…) una sorta di prediletto strumento ottico, ermeneutico e narrativo, composto da particolari lenti intercambiabili (…), da rivolgere anche a tempi e luoghi “altri” della storia e della letteratura». Là dove quelle lenti – vere e proprie “funzioni” – portano il nome di Stendhal, Courier, Diderot, i quali ultimi sono oggetto di convincenti e definitive considerazioni, in vista di ipotesi critiche poi riscontrate sulle due opere precipuamente settecentesche di Sciascia: Il consiglio d’Egitto (1963) e Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D (1969). Ricciarda Ricorda, nel 1977, proprio per dar conto di quelle “funzioni”, aveva parlato di 'retorica della citazione'. Dopo questo libro credo che, per Sciascia, si possa anche parlare di platonismo critico ed epistemologico: per dire che certe categorie storiografiche e filosofiche valgano come condizioni trascendentali, che consentano di sperimentare una concezione della Letteratura come 'sistema di oggetti eterni', i quali -sono parole dello scrittore- tornano alternativamente a splendere e a eclissarsi. Un libro, questo di Schembari, che chiude definitivamente il dossier. L’unica cosa che mi sentirei di aggiungere è che, quanto al suo rapporto col Settecento, Sciascia sa essere molto eloquente anche in ciò che tace: è il caso del suo rapporto con Rousseau, sempre sfiorato con riluttanza e disagio. Quel Rousseau apertamente citato una sola volta, ma con riprovazione, nel Consiglio d’Egitto – e Schembari non manca di registrarlo – in quanto sostenitore del primato della Natura sulla Storia, se è vero che soltanto la Storia «riscatta l’uomo dalla menzogna, lo porta alla verità».
Vitaliano Brancati (1907-1954) - archivio
A conti fatti, il critico dimostra, senza ombra di dubbio, che il debito di Sciascia nei confronti del Settecento va molto al di là di quel primato della ragione in cui è stato tante volte sbrigativamente capitalizzato. La bandiera della ragione, infatti, viene di sicuro sventolata nelle sue pagine, soprattutto negli anni dell’apprendistato, ma resta altrettanto evidente che quella disposizione razionalistica, sottoposta agli acidi corrosivi del pirandellismo, gli veniva da un altro illuminista anomalo, Vitaliano Brancati. Vi ricordate del Michele Castorini di Paolo il caldo (1954) che inveisce contro il neghittoso sensualismo dei suoi familiari? Ecco: «La felicità, in questa famiglia, avrei potuto averla soltanto io, perché la felicità è la ragione». Sono parole che ritrovo nel libro di Marco Dondero, Il gallo non ha cantato (Carocci, pagine 112, euro 13,00), in cui appunto si dimostra che a ispirare l’amaro moralismo di Brancati, il suo originale razionalismo, sia proprio la quasi utopica identità di felicità e ragione, concepita come ipotetico misurino della vicenda etica ed esistenziale dei suoi malvissuti personaggi. Moralismo e razionalismo verificati da Dondero in relazione ad alcuni cruciali temi. Dentro un arco cronologico che va dagli esordi di L’amico del vincitore (1932) a Gli anni perduti (1938) e Don Giovanni in Sicilia (1941), passando per Singolare avventura di viaggio (1934), già incistato però dalla crisi, Dondero si confronta con le questioni dell’attivismo fascista (e le sue implicazioni corruttive) e della successiva “demitizzazione comica”. Assai suggestive, poi, sono le pagine dedicate al rapporto tra giornalismo e letteratura, studiato in relazione a Il bell’Antonio (1949) e alle sue intersezioni con le coeve collaborazioni giornalistiche. Non posso non chiudere col saggio sull’importanza di Leopardi per Brancati: la quale, per via di Brancati riconducibile a Sciascia, spalanca quel singolare illuminismo siciliano sulle lande d’una disperazione storica e metafisica.