Jack Savoretti
Tornerà in Italia a febbraio per accendere il suo 2017 con due concerti che vorrebbe ricchi di spettacolo e non solo di canzoni, il 24 a Milano e il 26 a Genova; ma intanto Jack Savoretti, cantautore nato a Londra da padre italiano e madre tedesco-polacca, già nel 2016 si è confermato personaggio di culto degli appassionati di musica.
E la definizione “di culto”, obiettivamente, fa un po’ specie: non solo perché Savoretti, trentasei anni, è in attività dal 2007 e l’album dello scorso anno Sleep no more è il suo ottavo. Fa specie che sia considerato “di culto” proponendo pop-rock, certo eccellente, certo qua e là pure capace di farsi cantautorato intimista ed elegante ( Tight rope) o rude e disperato ( We are bound), ma dentro uno stile più vicino al repertorio di un Elton John che non a quello di un Bob Dylan: eppure da noi il pop di alto livello (a tratti altissimo, basta ascoltare la delicata ed energica, ispiratissima title-track dell’album) non diventa proprio da classifica.
Diventa appunto “di culto”. E ciò fa specie pure perché Savoretti all’estero è stato supportato dalla BBC (2008), chiamato ad aprire i concerti di Springsteen (2012), invitato a partecipare a un video di McCartney (2013), numero uno nelle hit inglesi (2015). Mentre da noi è arrivato solo nel 2014, vagando nella Rai di notte a “Casa Sanremo” per essere poi supporter di Elisa nel locale Alcatraz di Milano (Elisa ci perdonerà, ma non è McCartney: e comunque si vide ricambiato il favore con un invito a esibirsi a Londra).
Per tacere della fatica a giungere coi live ai nostri auditorium (anche a febbraio sarà in un locale a Milano, e solo a Genova a teatro), e delle nostre hit dove non figura tuttora. Malgrado il bell’aspetto, i bei suoni, il bel pop che canta pure valori forti - su tutti quello dell’amore coniugale - Jack Savoretti insomma rimane, in Italia, “di culto”. Fortuna che lui però a questo nostro desolato panorama non rinuncia: e chiacchierando svela uno spessore umano che probabilmente è causa di quello artistico, quanto ci sembra non per caso raro da riscontrare nei nostri “talenti” da hit parade.
Savoretti, partiamo dal suo album. Il titolo, Sleep no more, rimanda, ha detto lei, « a quelle cose che non fanno dor- mire la notte». C’è anche il successo?
«No, in ogni persona ci sono le stesse paure, quando si diventa adulti e soprattutto si hanno bambini. Si capisce che non puoi restare ragazzino tutta la vita, e che prendersi responsabilità è decisivo. Certo questo vale anche per il mio mestiere, peraltro oggi molto aleatorio: ma pure scrivendo canzoni bisogna scegliere fra passioni e responsabilità. La cosa positiva è che forse la mia generazione è la prima che sta provando a trovare un equilibrio fra loro».
Non fa paura neppure essere definito “nuovo Dylan”?
«Mi fece ridere, nacque da un giornalismo veloce che prende mezza risposta e ne fa una definizione. Non entro nella paranoia di confronti impossibili».
Si sente fuori moda, a cantare l’amore coniugale?
«Sì e no. In realtà ho il terrore di tutte le mode, fin da ragazzino vedere gli amici cambiare look o taglio di capelli mi schifava. Quindi pure nella vita di oggi non guardo alle mode ma alle cose che non hanno tempo, che restano, che hanno senso. Non mi accontento di ciò che è utile o conveniente».
Che cos’è per lei il matrimonio, che canta nel Cd?
«È la famiglia. È quando l’amore diventa promessa dell’infinito, scelta di dedicarsi tutta la vita a una persona, costruire il domani facendo figli».
È responsabilità, insomma: ma quanto l’ha pagato, scegliere le responsabilità facendo il cantante?
«A volte il narcisismo ha vinto anche in me: e lì ho sperimentato, cosa sarei potuto essere facendo sempre certe scelte. Probabilmente avrei più soldi e mi vedreste in altri contesti, ma sarei una persona molto peggiore. E poi sono arrivato ai miei risultati con fatica, non riesco a definire “successo” arrivarci in altro modo. Anche ultimamente mi hanno offerto tanti soldi per suonare a Capodanno, ma io avevo scelto di stare coi miei ragazzi e mia moglie».
Sente come un dovere, il cantare i suoi ideali?
«Assolutamente sì. Da ragazzo trovavo conforto in artisti che parlavano dei valori scoperti crescendo, Springsteen, Tom Waits, quindi ora non mi basta cantare d’amore: anche se è difficile. Ma se vuoi essere ascoltato da chiunque non sarai mai genuino; devi invece andare in profondità, rischiare di non essere immediato, tanto è nel tempo che la gente assorbirà quanto scrivi. Anche Battisti disse che non si scrive per essere capiti oggi, se si è sinceri».
Che differenza c’è stata fra le opportunità da lei avute in Italia e quelle avute nel Regno Unito?
«Le confesso che se canto ancora in Italia è perché la amo, è un Paese chiuso. Cinque anni fa presi tante porte in faccia, non essendo uno facile per un’industria del disco col freno a mano, che non capisce che all’estero non guardano certo qui per il pop. L’Italia è diventata il fast food della musica, progetti tutti uguali, cultura televisiva basata sul reality, e troppi che non capiscono che nessuno va a Roma per un hamburger. Ben altro dovrebbe avere da offrire, la patria del grande cinema e di De André».