Campagna prosciugata e campagna irrigata presso Palo Verde, in California - Reuters/Aude Guerrucci
Sono passati molti anni da un testo che fece epoca, Apocalittici e integrati di Umberto Eco. Oggi non sarebbe più possibile scriverlo con la coscienza serena. Che l’Apocalisse sia una cifra di questo millennio ci sono pochi dubbi. La deriva che ci trascina verso la fine del pianeta, il pericolo nucleare, il moltiplicarsi dei regimi di tortura e dittatura sono sotto gli occhi di tutti. Sono i terribili segni dei tempi di fronte ai quali ogni atteggiamento ottimista risulta fuor di luogo. Oggi scrittori, intellettuali, sarebbe bello dire politici, hanno un dovere ben preciso se non vogliono solo trastullarsi con il proprio e l’altrui destino. Come ci ha insegnato Sebald, che era nato nel 1944, è impossibile non fare i conti con l’abisso, la caduta, la distruzione. È un compito che Sebald si è prefisso tutta la vita e che oggi investe in pieno chi crede nel senso della scrittura, della letteratura, della ricerca, della testimonianza. Lo si può svolgere però in vario modo. C’è ovviamente la retorica di tutto questo, è facile mettersi dalla parte della ragione e tacciare il mondo di tradimento. Oppure, alla Sebald, sentirsi corresponsabile di ciò che ci sta accadendo. La faccenda riguarda tutte le generazioni viventi, ma in particolar modo coloro che si sono affacciati a questo mondo pochi decenni fa. Essere nati dentro la catastrofe significa qualcosa di ben preciso dal punto di vista non solo di ciò di cui bisogna occuparsi, ma anche del modo di farlo. Recentemente un giovane filosofo, Leonardo Caffo, ha tentato di definire la situazione in cui ci troviamo con sei parole chiave, in un testo dal titolo Velocità di fuga. Le parole sono: attesa, semplicità, ecologia, isolamento, anticipazione, offlife. Fanno accenno alle parole delle Lezioni americane di Italo Calvino (1988): leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, e, incompiuta, coerenza. Oggi sarebbe molto difficile scrivere qualcosa di simile, non solo per la grandezza e lo stile di Calvino, ma perché parlare di leggerezza, di esattezza, di rapidità evocherebbe alcune impossibilità e dei grandi errori degli ultimi decenni. Questi nostri tempi sono caratterizzati da pesantezza, opacità, confusione e ambiguità: i quattro cavalieri della nuova apocalisse. Caffo però, fedele a un mandato che investe la sua generazione, tenta di lanciarne di nuove. Non è solo tra i giovani scrittori del momento a tentare di parlare, di catastrofe e di possibili vie di fuga. Ad esempio è quello che fa Andrea Staid nell’invito a un ritorno alla semplicità anarchica e agreste dell’abitare ( La casa vivente, Add), o chi, come Federico Campagna ( Magia e tecnica, Tlon) , tenta una fuga dall’utopismo postmarxista nel mondo dell’alchimia. Qualcuno un po’ più anziano di loro come Matteo Meschiari ( Landness, Meltemi) invece insiste sul nero, sull’abisso, sull’aspetto supergotico della catastrofe e lo fa insultando il secolo e i responsabili. Sono vari modi di fuggire, vari modi di intestarsi la catastrofe, di manifestare la coscienza della sua ineludibile presenza infestante. Va dato atto a Caffo di tentare una strada meno urlata e meno ingenua, un vedere cosa si può fare, adesso, nel proprio piccolo. Caffo è un pessimista con una tendenza alle piccole riparazioni. Il suo libro mi fa pensare a una filosofa americana, Elizabeth Spelman, che ha scritto Repair, un libro sull’attitudine umana a riparare. La fragilità del mondo richiede un atteggiamento di riparazione. Oggi ne abbiamo bisogno, il mondo, l’umanità, richiedono riparazioni. Repair significa anche e più sottilmente la capacità di farsi perdonare, di chiedere scusa, di negoziare, di trattare con quello che offre il presente. Forse un passo avanti rispetto alla testimonianza della fragilità, forse un passo avanti rispetto alla pura e semplice identificazione con la fragilità. Sta a questa generazione, la più colpita dalla catastrofe, capire se sarà una generazione di riparatori o no. È un mondo fragile, rotto, fratturato, è una umanità ferita, cesurata, spaventata, è la guerra, è la fine della natura, la distruzione dell’Amazzonia, le dittature che annunciano l’Apocalisse adesso come non mai. Come mi piacerebbe che questi miei amici trentenni e quarantenni fossero i filosofi della caduta dell’Impero, Marc’Aurelio, Origene, Plotino, Giuliano l’Apostata! Come mi piacerebbe che rileggessero l’Apocalisse di Giovanni. Ma sono tutti figli di un riciclato materialismo dialettico e digiuni di teologia, peccato, ma non è detto che al prossimo giro saranno gli ultimissimi i loro temi. Velocità di fuga di Caffo è un onestissimo fedele ritratto di una generazione. Che vuole testimoniare l’impastoiamento in cui viviamo, l’impossibilità effettiva di spiccare il volo e andare altrove, l’adesione eccessiva all’untuosità dei media, dei social, perfino dell’ecologia per non parlare della geopolitica. Sembra di sentire gli effetti di questa strana coda di drago che è stata la pandemia, ma anche la rottura della globalizzazione, la caduta di ogni universalismo. Difficile essere ottimisti, ma si può tentare con una buona velocità di fuga di guardare le cose da una prospettiva diversa, e da lì magari capire cosa resta da fare.