Il Festival di Sanremo non fa vendere dischi, eppure mai come ora tutti vogliono andarci. Abbiamo chiesto il perché a Caterina Caselli, talent scout e discografica che dal palco dell’Ariston ha lanciato con la sua Sugar gente come Elisa, Bocelli, Negramaro, Malika e che porta quest’anno Raphael Gualazzi, con The Bloody Beetroots, e Riccardo Sinigallia.
Signora Caselli, dal punto di vista dell’imprenditrice, in questi tempi di crisi qual è la valenza del Festival? «Sono diversi anni che il Festival non fa vendere i dischi come una volta. Da quando il mercato italiano della musica registrata è precipitato a livelli di sussistenza, Sanremo non è più un salvagente. Faceva vendere i singoli fino alla fine degli anni Sessanta, poi la compilation del Festival e anche gli album dei vari cantanti. In questi ultimi anni è rimasta la valenza promozionale, ma non tanto per le vendite, quanto per attirare l’attenzione dei media su una determinata proposta artistica. In questo è ancora insostituibile».
E i talent show? «I talent show sono un fenomeno rispettabile, ma non so quanto duraturo. E comunque trattasi di televisione: servono a fare ascolti. In queste fase storica sono uno strumento di pre-selezione che l’industria ha imparato a utilizzare perché consente di testare le reazioni del pubblico. Creano enormi aspettative, ma a distanza di qualche anno il numero di quelli che riescono ad affermarsi è davvero esiguo. Comunque il nostro lavoro è un altro».
Che tipo di lavoro ha fatto, quindi, la Sugar con gli artisti che porta quest’anno? «Raphael Gualazzi è un artista così particolare che aveva bisogno di essere fatto conoscere da un palcoscenico importante e dal vivo. Per arrivare al Festival con la speranza di ottenere un risultato bisogna produrre un disco, con tutto quel che comporta in termini di investimento. Per un artista già affermato meglio essere pronti con un album. Per una nuova proposta può essere sufficiente realizzare un singolo o un EP con tre, quattro brani, ma serve comunque un minimo di investimento promozionale. Quest’anno con Riccardo Sinigallia abbiamo fatto uno strappo alle nostre abitudini di portare solo artisti nati e cresciuti da noi. In questo caso il singolo e i brani dell’album erano già praticamente finiti e non abbiamo dovuto produrlo exnovo. Poi non bisogna dimenticare che la partecipazione al Festival richiede sostanziose risorse se vuoi costruire un evento intorno ai tuoi artisti, come i duetti. Ecco, a fronte di queste spese, il rimborso previsto dall’organizzatore (la Rai) non ci permette certamente di andare in pari».
Quanto vale il mercato discografico italiano? «Per la prima volta da molti anni sembra che si sia invertita la tendenza, ma non è il caso di entusiasmarsi troppo. L’ultima stima ufficiale è di pochi giorni fa e si colloca intorno ai 117 milioni di euro, il 2% in più rispetto allo scorso anno, e comunque sempre il 70% in meno del 2001, ahimè». Lei cita ad esempio i risultati del Tax credit per il cinema... «Il cinema ha avuto molto presto il riconoscimento di valore culturale e nel tempo è riuscito a sviluppare varie forme di sostegno anche in sede di Unione Europea. Di queste il Tax credit è una formula abbastanza efficace sia per trovare nuovi finanziatori attratti dalla possibilità di risparmiare il 40% sulle tasse, sia per sviluppare nuovi prodotti. Qualcosa di cui anche la musica, che si è sempre auto-finanziata, ha bisogno per proporre cose nuove senza mettere a rischio l’azienda ogni volta. Adesso qualcosa si è mosso, ma la percentuale che spetta alla musica (qualcosa come 5 milioni di euro) è pari al 5% del fatturato del settore, contro i 140 milioni circa del cinema che sono il 20% del loro fatturato».
La creatività crea posti di lavoro? «Per me il sistema organico di sostegno alla cultura che vige in Francia rimane un modello da seguire. Le industrie creative sono formidabili produttori di ricchezza sociale e quindi di occupazione di qualità. Un recente studio della Sacem (la Siae francese) ha messo in evidenza che il valore dell’intera industria creativa (cinema, editoria, musica, videogiochi, musei e beni culturali) in termini di Pil è superiore a quello dell’industria automobilistica, e che in termini di occupazione vale sette milioni di posti di lavoro qualificati. Se si costruisce il sistema, anche lo Stato ne avrà un ritorno fiscale».
Qual è la sua idea di 'alleanza creativa europea'? «L’Europa con la direttiva sull’industria creativa di due anni fa ha già mostrato di avere ben chiaro che qui si gioca una partita decisiva per il futuro del mercato unico. E, mi lasci dire, anche dell’Europa politica, di cui si sente un gran bisogno. Ogni Paese d’Europa è un giacimento culturale, con una tradizione distintiva di capacità creative sviluppata nel corso di secoli, se non millenni. Un progetto specifico di alleanza fra tutte queste forze, che comprenda le arti visive e grafiche, la produzione letteraria, musicale, teatrale, cinematografica, i videogiochi, la televisione, internet, oltre ai beni culturali e paesaggistici, potrebbe lanciare una piattaforma comune che incrementi lo scambio inter-europeo nel campo dei contenuti e soprattutto dar vita a un fronte comune per sedersi con più forza e difendere i nostri interessi ai tavoli delle trattative con i colossi tecnologici americani».