sabato 8 febbraio 2020
Nella parrocchia di San Biagio, don Pietro Garbin soccorse sfollati, nascose ebrei, aiutò partigiani rischiando la propria vita E nella ricostruzione prestò assistenza alle famiglie di ex fascisti
La chiesa di San Biagio a Forlì, prima di essere distrutta dai bombardamenti tedeschi

La chiesa di San Biagio a Forlì, prima di essere distrutta dai bombardamenti tedeschi - Archivio

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Nella sua storia ottonovecentesca Forlì ha goduto della presenza di un clero forgiato non solo per la difesa dei valori religiosi, ma anche volto alla proposta sociale e politica, fin dai tempi della predicazione murriana e poi del popolarismo sturziano.

Era, per tutta la Romagna, il segno della Rerum Novarum e della formazione avvenuta per tanti giovani sacerdoti a Roma presso il Seminario Pio, che li spingeva all’azione. I vescovi Svampa e Jaffei, e il vicario don Adamo Pasini, studioso che ebbe interrotta ogni ascesa ecclesiastica da sospetti di “modernismo”, hanno rappresentato questa scia, incarnata anche in figure come quella di don Giuseppe Prati.

A questo filone autoctono si aggiungerà negli anni Trenta, anni problematici per la non evitabile convivenza da mantenere tra Chiesa e regime nella “città del Duce”, un elemento giunto dall’esterno: il nuovo vescovo, lodigiano, Giuseppe Rolla, che per anni desidererà impiantare a Forlì l’opera salesiana, in Romagna già presente a Ravenna, Faenza, Lugo e Rimini.

Nel momento in cui ci riuscirà, convincendo a Torino nel ’41 il Rettor maggiore Pietro Ricaldone al sì, non riuscirà a trattenere le lacrime, come confesserà in una delle sue prime omelie ai parrocchiani di San Biagio.

Questa chiesa era un reliquiario di memorie forlivesi, con affreschi di scuola del Melozzo e l’Immacolata di Guido Reni, in un quartiere popolare al cui centro si situavano l’oratorio di San Luigi, luogo storico delle attività cattoliche, e diversi monasteri e collegi femminili. I primi salesiani giungono a Forlì nell’ottobre 1942: il parroco designato don Pietro Garbin, 35 anni, veneto di Saletto di Montagnana, don Leo Coppo, 32 anni, musicologo, nato e cresciuto a New York, don Marco Perego, 29 anni, lombardo, incaricato di dirigere l’oratorio, nonché due coadiutori trentenni, Antonio Gandi e Domenico Presciutti.

Non sanno che li aspetterà un futuro doloroso e tragico, a contatto non solo con la povertà, ma con gli sfollati, i ricercati e i perseguitati, gli ammalati e feriti, e infine i reduci. Ma il contatto con la gioventù del luogo, maschile e femminile, sarà da subito caldo, convinto, e troverà menti e braccia disposte a sacrificarsi.

La personalità energica e trascinante di don Pietro Garbin sarà l’elemento centrale di una vera epopea, che diventerà tale per oltre un anno, dall’occupazione tedesca di Forlì, il 9 settembre ’43 al crollo – per bombardamento tedesco – della chiesa di San Biagio, con 19 parrocchiani morti, il 10 dicembre ’44, un mese dopo la liberazione della città.

Don Pietro Garbin, salesiano

Don Pietro Garbin, salesiano - Archivio

Finché possibile don Garbin aveva svolto opera di speranza, affascinando i parrocchiani col suo ispirato eloquio religioso e privilegiando gli operai e operaie di una ditta cittadina, il calzaturificio Trento, ove svolgeva argomenti sociali assai graditi alle maestranze. Ma quando anche i corpi saranno in pericolo, egli aprirà chiesa e conventi ai bisognosi e, tra questi, ai ricercati.

I bombardamenti alleati per mesi martelleranno la città: anche molti parrocchiani moriranno e San Biagio diverrà rifugio di tanti. Un sacerdote ospite dopo il carcere e le torture naziste ne scriverà qualche anno dopo: «San Biagio era trasformata in ospizio pubblico per sfollati, per sinistrati, per scoraggiati. Il coro, la sacrestia, i corridoi, i loggiati, le camere terrene erano invase da donne, vecchi e bambini. Di notte era un dormitorio collettivo, o meglio un accampamento di scampati…».

Ma la memoria più realistica, redatta nel luglio ’45 per obbedienza al vescovo e ai superiori sarà quella dello stesso don Garbin: “Carità: piccoli spunti a ricordo e incoraggiamento ai posteri”, che riassumerà l’opera da lui promossa in un biennio. Vi si ricostruisce l’azione, nascosta e pericolosa, verso i carcerati politici, la scarcerazione ottenuta di due preti in contatto con i partigiani, ottenuta recandosi col vescovo dal comandante tedesco, la consegna ai «fuggiaschi in montagna» dopo l’armistizio di vestiario e medicinali, le retate improvvise dei tedeschi e la loro protervia nell’entrare anche in San Biagio alla ricerca di spie.

E qui don Garbin descrive, nel ’45, un episodio personale già noto in città: la sua “messa al muro”, con minaccia di morte. «Spalle al muro, braccia aperte, come Cristo Crocefisso, ero in attesa della mia sorte. Mi raccomandavo l’anima a Dio. Ero sereno e preparato. Chissà che cosa non avrei fatto per salvare quei cari uomini che quasi quasi trattenevano il respiro, rannicchiati in un angolo del voltone della buia cupola della chiesa».

Non trovando le spie, i tedeschi arrestano due parrocchiani, uno dei quali riesce a fuggire e l’altro è poi liberato anche «grazie all’intervento di una interprete tedesca». È questo l’unico accenno a un’interprete, sulla quale nulla aggiunge.

Nel crollo dello Stato don Garbin cerca un’intesa con gli amministratori che reggono pro tempore le istituzioni residue, tra Prefettura e Comune, e “supplisce” alle carenze pubbliche assumendo responsabilità atte a non disperdere beni e risorse destinabili ai più bisognosi.

È in questa prospettiva che fonderà l’Ospedale Don Bosco nei locali dell’ex Opera Nazionale Balilla. Un trapasso esemplare, che continuerà dopo la liberazione, con l’avallo del Cln, a pro di reduci e sfollati. Qui avrà compiti logistici don Leo Coppo, interprete con le autorità alleate.

Poi sarà il tempo della “minestra del Papa” attorno ai salesiani, della neocostituita Pontificia Opera Assistenza, e anche della sempre discreta protezione di famiglie accusate per una passata adesione al fascismo. Don Garbin assumerà il ruolo di confessore di internati politici di quella parte.

Gli anni Cinquanta vedranno a Forlì un’esplosione di opere salesiane grazie a don Garbin e a privati benefattori: chiesa, oratorio, studentato, centro professionale.

Quando nel 1961, sulla Tuscolana, a Cinecittà, sorgerà la grande basilica dedicata a don Bosco, Giovanni XXIII vi vorrà parroco don Garbin.

Oggi la sua figura torna alla pubblica attenzione per iniziativa di chi, in quel tormentato 1944, era un bimbo di sei anni, ricoverato con padre e madre (il salesiano tacque a tutti l’ebraicità della famiglia) al convento del Buon Pastore, collegato a San Biagio: Bruno Laufer. Il quale ora rivela che era proprio la madre l’interprete che s’impegnò per ottenere dal comando tedesco, a nome di don Garbin, la liberazione di tanti prigionieri.

A Forlì. Un incontro e un cortometraggio

È dedicato a 'Don Pietro Garbin e l’Opera Salesiana a protezione dei perseguitati dai nazifascisti' l’incontro in programma questa domenica 9 febbraio alle ore 15,30 a Forlì presso la Sala Multimediale San Luigi (Via L. Nanni 15). Verrò presentato il cortometraggio di Maurizio Nari “Avvolti nella storia” realizzato con la collaborazione degli Istituti Superiori di Forlì. Dopo i saluti di don Piergiorgio Placci (direttore Opera
Salesiana di Forlì), don Stefano Martoglio (Consigliere Generale della Congregazione Salesiana), monsignor Livio Corazza (vescovo di Forlì Bertinoro), Luciano Meir Caro (rabbino di Ferrara e delle Romagne) e
Gian Luca Zattini (sindaco di Forlì) introducono Paolo Poponessi (responsabile Cultura della Sala Multimediale San Luigi) e lo storico Giovanni Tassani, con la testimonianza di Bruno Laufer, rifugiato con i familiari presso l’Opera Salesiana di Forlì durante le persecuzioni razziali nazifasciste. Conclude Noemi Di Segni (presidente Unione Comunità Ebraiche Italiane).



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