martedì 2 dicembre 2014
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Si propone un “doppio” Dostoevskij nello spettacolo Una sera, Delitto una sera Castigo. Sarà una lettura a due voci e in due tempi del grande romanzo, seguendo, però, il filo conduttore voluto dal suo autore: indagare l’animo umano per sviscerarne l’essenza, il destino e l’intima vocazione. Una scommessa severa e tagliente quella dell’attore e regista Sergio Rubini, ma una scelta coerente con il compito e la natura stessa del Teatro Argot Studio di Roma, il laboratorio di ricerca teatrale che con questo evento festeggia i trent’anni di attività. Da domani al 14 dicembre, insieme con Pier Giorgio Bellocchio, altro protagonista dello spazio trasteverino, l’artista pugliese sarà in scena per raccontare attraverso questo “dittico” la storia dell’assassino Raskol’nikov che si redime con l’amore e la fede in Cristo Salvatore. «Il capolavoro di Dostoevksij è stato sempre un mio pallino – spiega Rubini – ma non avevo mai osato finora metterci le mani: Delitto e castigo è intriso di doppiezza, ogni personaggio è il doppio dell’altro e il doppio è un tema che mi intriga, è stato l’ossessione dell’Ottocento, non a caso il secolo in cui è nata la psicoanalisi, nel quale Stevenson ha scritto Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde e lo stesso romanziere russo anche il racconto Il sosia».Ma come funzionerà lo spettacolo di cui lei ha curato il “taglia e cuci” dei testi? «Nella sera del Delitto <+TONDOAGORA>i brani avranno a che fare con l’omicidio ma non saranno necessariamente stralciati dalla prima parte del romanzo: sono state raccolte tutte le scene, come quelle che hanno a che fare con la miseria e l’odio, che servono al protagonista per armarsi. Così come nella sera del Castigo non verrà fuori solo il groviglio paranoico che deriva dall’aver ucciso ma anche lo stato, visto come un fardello da sopportare, che ne ha generato la “soluzione”. Non è quindi che se si vede la prima parte si deve vedere per forza la seconda e viceversa: esistono elementi utili alla comprensione in entrambi gli spettacoli che durano ognuno un’ora e un quarto». La vicenda narrata nel romanzo di Dostoevskij è di un’attualità impressionante per il tema e perché mette in luce la crisi dell’uomo moderno. Qual è il giudizio che emerge dalla vostra lettura? «Che il romanzo non è solo etico-religioso ma qualcosa di ancora più profondo, una specie di percorso utilitaristico che serve all’uomo per vivere meglio. Dostoevskij non è un bacchettone, il nichilismo per lui prima di essere messo all’indice è un’esperienza complessa che porta all’accettazione di sé, non è l’obiettivo finale ma l’elemento di una scelta dolorosa e faticosa, una specie di apprendistato che conduce alla salvazione. La forza del libro non consiste nel mettersi dalla parte del delitto o dalla parte del castigo, ma nel fatto che bisogna vivere fino in fondo la propria vita e poi scegliere ciò che più conviene, cioè l’amore». La fede, il destino, la coscienza, tre emergenze che provocano l’uomo, di ieri come quello di oggi...«Il messaggio del romanzo è sempre potente... Sul tema della fede ho capito rileggendo l’opera dostoevskiana che il motivo del conflitto tra lui e Tolstoj era il cristianesimo applicato alla realtà. Si capisce che la speranza sta altrove, è metafisica, la fede è necessaria a mantenere vivo il mondo delle idee, a percepire un Altrove, anche con una condotta concreta, avendo una visione del mondo e una capacità di riconoscere l’altro. Chi non dovesse essere sorretto dalla fede, dunque, non avrà il metodo per decifrare l’animo umano, un qualcosa di sconfinato quanto il firmamento...». Una bella scommessa portare tutto questo sul palcoscenico...«L’Argot è nato come luogo sperimentale, un aspetto emozionante del teatro ma un tallone d’Achille in Italia, dove di ricerca teatrale se ne fa molto poca: in questa ricorrenza si trattava di proseguire un percorso intrapreso con successo. E poi, cosa vuole, con il Valle chiuso e l’Eliseo che non si sa che fine farà, la sopravvivenza di questo cortile romano è un incoraggiamento a continuare».
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