venerdì 13 agosto 2021
Al Rof, che terminerà il 22 agosto alla presenza di Mattarella, incantano e interrogano anche i molti giovani accorsi al Festival le grandi opere tra assenza ed evocazione di Dio fra passato e ’900
La cantante Karine Deshayes in “Elisabetta regina d’Inghilterra” al Rossini Opera Festival di Pesaro

La cantante Karine Deshayes in “Elisabetta regina d’Inghilterra” al Rossini Opera Festival di Pesaro - Studio Amati/Bacciardi

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Verso il porto, a Pesaro, c’è la movida. Da una parte le case e gli alberghi. Dall’altra il mare. E i locali sulla spiaggia. Che di sera si popolano di giovani. Arrivano in bici. Qualcosa da bere. Due chiacchiere sulle ultime medaglie vinte alle Olimpiadi, ma anche sulla musica. Una musica che non ti aspetti. «Stasera all’Arena c’era l’anteprima di Elisabetta regina d’Inghilterra. Vorrei andarci una sera, prima di partire per le vacanze». Ti fermi un attimo, di ritorno proprio dall’Elisabetta rossiniana, e cerchi di capire se hai sentito bene. I giovani a Pesaro parlano (anche) di Gioachino Rossini. Le locandine del Rof (che terminerà il 22 agosto alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella) ci sono anche su viale Trieste, quelle con la grafica sempre uguale dal 1980, anno del primo Rossini opera festival. Gialle, rosse, blu, grigie, annunciano i titoli dell’edizione numero quarantadue, Moïse et Pharaon, Il signor Bruschino, Elisabetta regina d’Inghilterra.

Un denominatore comune che ti è (più) chiaro alla fine della tre giorni della maratona rossiniana. Il potere. L’amore. Un potere che rinuncia all’amore. Lo leggi in controluce nella musica e nelle storie (tre variazioni sul tema) di Mosé, Bruschino ed Elisabetta. Non lo diresti, ma sembra esserci un grande assente nel Moïse et Pharaon. Ed è Dio. Nonostante quella di Mosè sia la storia di una promessa (di una terra) e di un patto, quello dell’uomo con Dio. Inciso sulle tavole della Legge. Eppure Dio sembra non esserci nella storia – in quel pezzo di storia che Rossini fa diventare romanzo musicale – del popolo ebraico in Egitto.

Storia che si ripete. Si è ripetuta. Dove era Dio? la domanda. E fa ancora più effetto che arrivi in musica, riflessione sul passato e quasi profezia su ciò che verrà, nel 1827, perché il secolo dell’assenza (e della morte) di Dio è il Novecento della Shoa, non certo l’Ottocento nel quale Rossini scrive la sua opera. Moïse che ha aperto alla Vitrifrigo Arena il Rof 2021. Immerso in un nero, in un grigio, in un bianco sporco. Che raccontano l’assenza di Dio. E d’altra parte il titolo lo dice chiaro: è una storia di uomini, di Mosè e del fratellastro faraone, contrapposti nella concezione del potere. Lacerati. Come l’ebrea Anaï che deve scegliere tra la fedeltà a Dio e l’amore per Aménophis, il figlio del faraone.

Lo racconta la musica di Rossini che Giacomo Sagripani sul podio dell’Orchestra sinfonica nazionale della Rai restituisce in tutta la sua (immediata e disarmante) bellezza. A volte, però, l’impressione è che il direttore resti in superficie, ad un livello estetico, senza affondare le mani in quello etico, senza scandagliare i significati della partitura. Che poi quella (solo) estetica è la stessa cifra (lo stesso limite) dello spettacolo di Pier Luigi Pizzi. Un elegante concerto in costume, che non disturba la musica, ma nemmeno le coscienze, nonostante il colpo di teatro finale con gli ebrei che, una volta passato il Mar Rosso, ricompaiono vestiti anni Quaranta, a evocare i sopravvissuti ai campi di sterminio, ma anche i palestinesi che una terra ancora non l’hanno. La mano del Pizzi scenografo e costumista resta sempre raffinata dove quella del Pizzi regista sembra latitare. Peccato.

Perché il cast schierato dal Rof è (quasi tutto) stellare. Roberto Tagliavini, un fuoriclasse del canto, offre un ritratto a tutto tondo del protagonista. Vasilisa Berzhanskaya incanta per la misura con la quale disegna la regina Sinaïde, con una voce di ammaliante bellezza. Applauditissima a scena aperta. Come Eleonora Buratto, al suo primo Rossini serio: la sua è una dolente, ma mai rassegnata Anaï, che si colora di malinconia. Monica Bacelli è un’incisiva Marie. Matteo Roma lascia il segno nel piccolo ruolo di Aufide, imponendosi nei concertati per la bellezza del timbro. Andrew Owens è un Aménophis a corrente alterna, tra momenti belli e ispirati e altri meno efficaci. E dopo il grigio del dubbio, che tanto assomiglia al limbo del nostro presente dove la speranza fatica a bucare le tenebre, ecco che arriva un segno. Il mare si apre. Gli ebrei cantano un inno di lode, «Chantons, bénissons le Seigneur». A dire che Dio non è (stato) il grande assente. Ma ha abitato e abita la storia degli uomini.

Uomini che, ne Il signor Bruschino, farsa scritta per Venezia nel 1813, Rossini ventunenne racconta con il sorriso. Smascherandoli nei loro tic. Un meccanismo comico perfetto nello spettacolo mai sopra le righe di Barbe & Doucet che trasportano la storia su una nave ancorata a una banchina, non più in un Settecento di nobili decaduti, ma in un Novecento popolato da vitelloni che nel lieto fine saranno scornati e dovranno arrendersi al trionfo dell’amore. Michele Spotti, sul podio al centro della platea del Teatro Rossini dove la Filarmonica Rossini è collocata per rispettare il distanziamento, ha un gesto preciso, elegante e fa scorrere con gran naturalezza il discorso musicale in una lettura dove senti la grandezza del Rossini che verrà, anche del Rossini drammatico. L’aria di Sofia ha il respiro delle grandi arie delle eroine rossiniane, la canta, senza sbagliare una nota Marina Monzò, voce bella, gusto nel canto, presenza scenica eccellente. Come Pietro Spagnoli, spassoso signor Bruschino.

E se Bruschino potrebbe essere benissimo una commedia all’italiana, con Davide Livermore Elisabetta regina d’Inghilterra finisce per assomigliare ad una serie tv. Perché il regista rilegge l’opera del 1815 (in scena alla Vitrifrico Arena con un efficace Evelino Pidò sul podio dell’orchestra Rai) come se fosse una puntata di The Crown. E fa diventare la sovrana figlia di Enrico VIII del libretto l’attuale monarca britannica. Karine Deshayes, vestita di bianco, la fascia blu con le onorificenze appuntata alla spalla, la corona che brilla in testa. Infila gli occhiali e parla alla radio, un messaggio ai sudditi. «Quanto è grato all’alma mia, il comun, dolce contento». Resti spiazzato, perché vedi Elisabetta II.

Ma il gioco funziona anche perché nella partitura non c’è nulla di storico. C’è la fantasia. La stessa che Livermore (con la sua consueta squadra, Giò Forma per le scene, D-Wok per i video, Gianluca Falaschi per i costumi in perfetto stile british) mette nel suo spettacolo, ipercinetico con movimenti che contrappuntano ogni nota, ridondante con molte autocitazioni e un vortice di immagini che non ti danno tregua. Effetti speciali tra i quali si muovono Karine Deshayes (Elisabetta), Salome Jicia (Matilde), Sergey Romanovsky (Leicester), Barry Banks (Norfolc). Si mettono in posa agli applausi finali (anche questo una delle tante trovate di Livermore, un suo marchio di fabbrica inconfondibile) per un selfie. Da postare con l’hastag #potere& amore su Instagram. Come fanno i giovani. Che a Pesaro, nei locali dove risuona la trap, parlano di Rossini.

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