Una stanza della sezione “Biografia domestica” - Milano, Museo del Novecento
Non molto tempo fa, girovagando liberamente con un amico dalle parti di Cavallino-Treporti, sul litorale veneziano, territorio disseminato di torri telemetriche che risalgono alla Grande guerra e che sono straordinarie architetture spesso abbandonate a se stesse, all’improvviso ne appare una tronco-conica, talmente singolare che non posso trattenermi dal dire: «Sembra una caffettiera di Aldo Rossi ». L’amico, che probabilmente non ha mai bevuto un caffè fatto con una caffettiera aldorossiana, si mostra con uno sguardo ironico e sorpreso. Ma c’è poco da ridere, penso, perché le caffettiere di Aldo Rossi sono architetture così come certe sue architetture potrebbero essere oggetti d’uso quotidiano come un armadio, una credenza, un tavolo, uno specchio, una libreria... Le caffettiere hanno però il posto d’onore – la ditta Alessi ne realizzò un paio alte oltre un metro e mezzo, a mo’ di totem dell’industrial design, quello snob dell’oggetto per tutti ma costoso (ottimo come regalo per i matrimoni): il postmoderno è stato anche questo –, e lo stesso architetto ribadì questo suo imprinting a contatto con la vita semplice di una volta, quella dove lui era cresciuto e da giovane aveva sposato la causa comunista. La mostra “Aldo Rossi. Design 1960-1997" (fino al 2 ottobre) che il Museo del Novecento di Milano dedica ora alla sua intera produzione di designer – accompagnata da un catalogo ragionato edito da Silvana e curato da Chiara Spangaro e Cristina Moro – ci permette di comprendere che tutta l’architettura di Rossi nasce dal mito del paese dei balocchi. Pochi anni fa a Pontedera organizzarono una mostra dedicata ai giocattoli a partire dai tempi dell’unità d’Italia, e si capiva che quella dei balocchi c’era per noi l’arte più seria del mondo, perché – soprattutto nei primi decenni del Novecento – essa produceva strumenti di alfabetizzazione di massa attraverso cui i bambini imparavano a stare al mondo. Aldo Rossi, in fin dei conti, fu uno di quei bambini che negli anni Trenta si divertivano con Pinocchi di legno, cavallucci a dondolo e giocattoli di latta che caricati a molla si muovevano, correvano, cadevano e si rialzavano come i misirizzi di infantile memoria. Poi naturalmente dobbiamo proiettare questa immaginetta da Italia autarchica (erano anni di fascismo) su quel bambino che, diventato adulto, avrà nell’architettura e nel design domestico il suo gioco preferito ma ripensato, oltre il progetto moderno, a partire dall’arte figurativa che risale alla Metafisica di De Chirico, ma anche al futurismo cubisteggiante, i mondi surreali e popolari della libera immaginazione che nel postmoderno associa le forme come un bambino le figurine di legno che componevano puzzle iconografici. Le sue scenografie – perché di questo parliamo quando tocchiamo il discorso dell’architettura “disegnata”, l’unica sua architettura capace di resistere al tempo (era un Étienne-Louis Boullée più colorato e melanconico, che ebbe la cattiva idea di passare dalle idee ai fatti) – sono stanze dove ogni oggetto evoca un’aura da favola, l’arcano frammentato nelle forme che compongono l’insieme, lo scenario appunto che ricompone la memoria dell’infanzia rivisitata. Ne emerge la visionaria città costruita da un bambino pieno di furore – melanconico o meno, come sostiene Domitilla Dardi, resta un furore da cupio dissolvi che proietta ombre mortifere fra scheletri di città, archeologie della città ideale. È il mondo di un bambino crudele o un enfant terrible come certi se ne vedono nei film horror di oggi, i cui occhi brillano come mercurio. Ma le architetture di Rossi sono luoghi di contrizione; universi penali. Il bambino traumatizzato da punizioni severe e da altre spaventose memorie delle favole, secondo la migliore tradizione, una volta diventato adulto ha cercato di restituire la pariglia agli adulti, o meglio a quel mondo di cui diventa il briccone divino. Quando ho letto nel saggio di Chiara Spangaro che il Cimitero di Modena sarebbe «la sua opera più intensa e assoluta» come per un riflesso condizionato mi sono ricordato del memorabile De profundische nel 1985 Giovanni Klaus Koenig scrisse sulla rivista “Ottagono” mettendo in luce le dolorose pecche di questa architettura aldorossiana. Fin dal titolo si capiva che il divertimento non sarebbe mancato: Attenti al dettaglio che lo scarto è breve fra ruggito e raglio. Straordinaria stroncatura da parte di uno storico del design e dell’architettura tra i maggiori del Novecento e che oggi è certamente troppo dimenticato. Dissentendo da Gregotti e Portoghesi che all’epoca, mentre il mito rossiano dilagava, lo eleggevano a maggior architetto italiano dell’ultimo Novecento, Koenig s’impegna a demolire il mito con osservazioni che riguardano sia il significato del Cimitero modenese (che richiama certe architetture concentrazionarie, come quelle di Auschwitz; un pegno che Rossi paga a uno dei maestri di questa estetica, il tedesco Heinrich Tessenow); sia gli errori costruttivi che dopo una manciata di anni dalla inaugurazione del Cimitero emergevano creando falle incredibili nell’edificio (dalle grondaie ai giunti di dilatazione che saltavano o erano nel posto sbagliato, le crepe nei muri e le spaccature nei pavimenti...). La ragione di questi «tanti errori di grammatica e di sintassi » era una e ben chiara, scriveva Koenig: «l’autore è fermamente convinto che tutto ciò che è bello nel disegno – una forma pura, non contaminata dalla realtà dei materiali – tale debba restare anche dopo quel puro accidente che è la costruzione». E citava a due riprese il giudizio dello storico dell’architettura Manfredo Tafuri a proposito dell’idea che Rossi fosse il maggiore architetto italiano dell’epoca: «purché non costruisca mai nulla», anzi: «purché non solo non costruisca, ma anche non insegni niente a nessuno». Ma le università hanno sfornato tanti, troppi seguaci di Rossi e dell’architettura disegnata che diventa realtà. Quella di Koenig e Tafuri era un’analisi perfetta: finché resta disegnata, l’architettura non fa danno (forse). Va guardata soltanto come opera d’arte. Tanta ne è esistita da Piranesi a Boullee e Ledoux, e perché non metterci anche il più visionario di tutti i francesi “rivoluzionari”, Jean-Jacques Lequeu, che forse più s’avvicina alla surreale crudeltà e al melanconico nichilismo di Rossi (il quale gioca all’ironica Pentola cubica per cuocere pomodori cubici).
Caffettiera “La cupola”, 1987 - Milano, Museo del Novecento
Scuole diverse, sia ben chiaro, grandeur contro italica autarchia: ma Rossi sfiora il surreale quando disegna le cabine da mare in serie e fa l’elogio del faro (chi non ha mai pensato almeno una volta nella vita di abitare in un faro? E lui del resto dichiara di essere un “pellegrino dei fari”): il faro come «casa della luce» che si trova sul limite fra la terra e il mare e il cielo (e cita le bianche architetture del Maine che si confondono col riflesso dell’Oceano). La cabina intesa come “piccola casa” – il richiamo alla fotografia di Luigi Ghirri risulta frequente – è una tipica visione da favola, l’unico “spazo” dove una cabina può diventare un Teatro del Mondo. E da questa celebre struttura galleggiante, che scivolò sull’acqua fino a Venezia per la Biennale del 1980, quella dove il Postmodern si dichiarò nelle scenografie della Strada Novissima voluta da Paolo Portoghesi coinvolgendo alcuni noti architetti internazionali, qualche anno dopo per Rossi cominciò la collaborazione con la ditta di design Alessi, mentore Alessandro Mendini. Qui non vale più lo slogan di Rogers «dal cucchiaio alla città», idea moderna di un’architettura che vuole organizzare su alcuni principi razionali, su tutti la funzionalità e una estetica non esornativa, l’intero spazio vitale umano. Per Rossi il cucchiaio e la città si condensano nelle forme del giocattolo, in un museo simile alla casa delle bambole. Anzi tutta l’architettura ormai è ricompresa nella forma di una caffettiera (persino un faro potrebbe diventare una caffettiera rossiana come, ritornando all’aneddoto iniziale, la torre telemetrica nell’entroterra veneziano). Il rapporto che ha stabilito col marchio Alessi ha dato a Rossi una notorietà mondana che certi suoi edifici non gli avevano portato se non sulle riviste d’architettura e nelle università. Design per le masse, con un tocco di lusso e di ludico. Ed è qui che l’asino casa, per così dire, perché il giovane tesserato comunista, che alla fine degli anni 50 pensava l’architettura e l’industrial design liberi dai monopoli e dallo sfruttamento degli operai, dov’è finito vent’anni dopo quando disegna per Alessi caffettiere teiere e tazze, caraffe e bollitori, orologi lampade e penne a sfera con uno stile elegante e ruffiano? Argan nel 1964 aveva dichiarato il fallimento del progetto moderno di un design dove qualità e quantità si sposavano alla portata di tutti, spezzando l’alienante logica del lusso combattendo pero anche quella fordista della produzione-consumo. La bellezza formale può comprendere una diversa funzionalità, come pensa Rossi – così Il Faro nel 1994 diventa la matrice di un servizio da tavola in porcellana e vetro per il marchio tedesco Rosenthal –, oppure il suo design ludico ma dall’etica sociale incerta, tipico di un’autarchia ingentilita adatta al ceto medio-alto, non è altro che la rappresentazione estetica di una battaglia persa?