Roberto Rossellini sul set di "Cartesio"
«Nel 1944, alla fine della guerra, tutto era distrutto in Italia. Il cinema come ogni altra cosa...». Iniziano così, con questo drammatico “ciak”, le memorie di Roberto Rossellini, rilasciate nelle interviste in tre puntate (da agosto-settembre del 1955 a gennaio 1956) sulle pagine di “Chahiers du Cinema” poi riproposte in Italia da “Cinema Nuovo” e ora ripubblicate, a cura di Goffredo Fofi, in Il mio dopoguerra di Roberto Rossellini (Edizioni dell’Asino, pagine 67, euro 8,00).
Dalle macerie e dall’assenza di un’industria organizzata «qualsiasi progetto andava bene», spiega il regista romano che, in questo contesto teso al minimo dei costi e al massimo della creatività, iniziò a girare Roma città aperta. Il film diventato la pietra miliare del neorealismo, proiettato nel settembre del 1945 «in occasione di un piccolo festival» venne sommerso dai fischi del pubblico e stroncato dalla critica. Stessa sorte, nel 1946, subì da noi, l’altra opera dell’allora quarantenne Rossellini, Paisà. Anche a Cannes, grazie a una presentazione sprezzante da parte di una delegazione italiana, Roma città aperta non andò al di là di un’anonima proiezione “tappabuchi”. Ma il riscatto era pronto dietro l’angolo dei boulevard. A Parigi, due mesi dopo quel passaggio in ombra, entrambi i film «risvegliarono un entusiasmo che io non mi aspettavo più», confessava Rossellini che spiccava letteralmente il volo oltreoceano quando Burstyn (il produttore di Il piccolo fuggitivo) lanciò Roma città aperta a New York che ne sancì il trionfo internazionale.
Pubblico e critica, da quel momento furono - per un po’ unanimemente - dalla parte del regista italiano, il quale fa notare che solo il botteghino non gli sorrideva a pieno, «gli incassi erano modesti se paragonati a quelli dei colossi hollywoodiani, ma enormi se paragonati al costo dei nostri film neorealisti». Il grande epigono del neorealismo andava alla conquista del mondo di celluloide, superando la dimensione “dialettale” e puntando su un’estetica scarna, “francescana”, basata essenzialmente «sul ritmo e sull’attesa».
Per Rossellini e i neorealisti l’anima è la macchina da presa e non conta la bella inquadratura, «il neorealismo consiste nel seguire un essere umano con amore in tutte le sue scoperte, in tutte le sue impressioni». Oltre a questo, il grande salto “registico” partiva dal cast. Gli attori, secondo il codice rosselliniano venivano scelti «unicamente per il loro fisico» e dovevano essere dei «non professionisti perché non hanno idee preconcette». Il lavoro della regia pertanto si esprime nel riportare l’attore, il personaggio «nella sua vera natura, nel ricostruirlo, nell’insegnargli nuovamente i suoi gesti abituali».
Tutto questo in Francia fu subito chiaro e anzi venne visto come geniale al punto da sostenere anche finanziariamente l’ultimo capolavoro della trilogia, Germania anno zero. Con l’aiuto del governo francese Rossellini nel marzo del 1947 raggiunse Berlino in automobile. «La città era deserta, il grigio del cielo penetrava nelle strade, e, ad altezza d’uomo si dominavano i tetti con lo sguardo, per ritrovare le strade sotto le macerie, erano stati spostati e ammucchiati i calcinacci...». Così ai suoi occhi apparve Berlino appena risvegliatasi dall’incubo nazista. E la fine della condanna totalitarista la rintracciò, con sorpresa, nell’insegna di un piccolo negozio, “Bazar Israel”. Il segno del ritorno degli ebrei, nella terra in cui agli occhi di Rossellini era importante filmare e dare una risposta, prima di tutto a se stesso, sul perché i tedeschi si erano resi complici della mannaia hitleriana. Fu a causa di «una falsa morale, essenza stessa del nazismo, l’abbandono dell’umiltà per il culto dell’eroismo, l’esaltazione della forza invece che della debolezza, l’orgoglio contro la semplicità?». Per rispondere a tutti questi atroci dubbi dell’umanità, Rossellini sceglie il personaggio del bambino che, credendo di fare un gesto eroico commette un crimine, salvo poi dover rispondere al tribunale della propria coscienza, davanti al quale, «la fiammella della morale non si è ancora spenta», e si autoinfligge il suicidio.
Il cinema è il mezzo con cui Rossellini (il neorealismo) intende indagare l’animo umano e come un «microscopio può prenderci per mano e condurci a scoprire cose che l’occhio non potrebbe scorgere». Questa è la funzione inedita che offre il cinema in quanto «arte nuova» e con questo moto interiore, nel 1948, folgorato da La voce umana di Jean Cocteau, Rossellini gira L’amore. Sotto la lente del microscopio finisce la sua musa, Anna Magnani. Sotto quella dei censori va invece un’opera bollata come «non cinema e questa - sottolinea amaro il regista - fu l’unica volta che ebbi modo di vedere tutta la critica d’accordo nello stesso giudizio».
Rossellini gioca con il cinema e con l’amico Federico Fellini. Il miracolo il secondo episodio di L’Amore (l’altro era La voce umana) altro non era che una delle classiche bugie oniriche felliniane, il quale aveva spacciato per novella russa una storia in realtà inventata di sana pianta. E la confessione avvenne solo dinanzi all’appassionato desiderio di Rossellini di portare a termine, come fece, quel film assolutamente incompreso. Eppure in L’amore c’è il tentativo del regista di andare a fondo anche alla sfera religiosa. Il microscopio del sedicente agnostico, è inquieto nel constatare che il dopoguerra è intriso di «quella specie di viltà che porta la gente a raggrupparsi come pecore sotto il bastone di un qualsiasi pastore». La Magnani, protagonista di Il miracolo è un personaggio folle «ma che nella sua confusione mentale ha una fede, allucinata se si vuole ma una fede».
San Bernardino da Siena ispira Rossellini in quello che con Stromboli vuole essere un’analisi distaccata, ma non distante dalla religiosità cristiana al punto da fargli dire che «Il miracolo è un’opera assolutamente cattolica». La religione del suo tempo si alimentava comunque di valori e di una educazione cristiana impartita in famiglia. Rossellini, in un’intervista pubblicata post mortem su “Paese Sera” (12 giugno 1977) e riportata in Il mio dopoguerra, nel preconizzare l’agonia di una «civiltà basata sul lucro, dominata dalla logica dell’avidità» era convinto della possibilità di una resurrezione: «Oggi mentre la civiltà che abbiamo babelicamente costruito si sfascia, ci resta la possibilità di risorgere umanamente». È un ciak di speranza, quello che il suo cinema ha trasmesso alle generazioni a venire, e che risuona fino a noi.