Rosella Postorino - WikiCommons
Ha ragione Rosella Postorino ad ascrivere all’idea dell’essere figli la chiave centrale del suo nuovo romanzo. Ma in parallelo, e soprattutto in quella forma estrema e onnipervasiva di presenza che è l’assenza, le grandi protagoniste, anche, ne sono le madri. Mi limitavo ad amare te (Feltrinelli, pagine 350, euro 19,00) è un grande affresco dipinto con le tinte cupe e dolorose della guerra. La vicenda incomincia nell’aprile del 1992, con l’assedio di Sarajevo, al centro vi sono tre adolescenti il cui destino segnato dal continuo convivere con l’urgenza del pericolo fa arrivare in Italia, anni dopo tornare in Bosnia, di nuovo lasciarla, in quel reticolo di traiettorie incrociate, vorticose tanto da risultare quasi sovrapposte, che è il rapporto con un Paese dilaniato e mai perduto nel ricordo.
Tutto, di una trama che possiede nel suo ordito il nervo della verità come può essere per un romanzo "documentato", ovvero ispirato a fatti storici realmente accaduti ma con nitore rielaborati dalla fantasia, dalla scrittrice è scandagliato e restituito con una sorprendente esattezza immaginativa (un binomio che potrebbe sembrare ossimorico e che è invece la sua cifra, come già si evinceva dal noto suo precedente romanzo Le assaggiatrici). Ricostruire frangenti addentrandovisi per come devono realmente essere accaduti è sì impresa narrativa complessa, ma nella quale Rosella Postorino si cimenta con cura e vigile accortezza, destreggiandosi senza mai smettere di farsi guidare da quella lezione di misura e di stile che si trae dal restare sempre attenti, e fedeli, alla vita.
Dietro alle esistenze dei tre protagonisti, Omar, Danilo e Nada, figli della guerra, orfani per causa di un conflitto aspro e assurdo, non così diverso da quello a cui assistiamo di nuovo oggi, altrove, atroci guerre così lontane e così vicine, dietro il duro cammino e destino per loro tre di lasciare la Bosnia, attraversare confini, la pubertà segnata e traumatizzata da continue prove, perdite, fatiche immani di distacchi, cicatrici impossibili da rimarginare o dimenticare, dietro questi tre ragazzi ci sono, grandi assenti sempre presenti, le loro madri. Donne invisibili e sfibrate, madri "senza più latte né figli", madri spettrali, irraggiungibili eppure ininterrottamente pensate, cercate, desiderate. Donne consumate dal tempo, dalla distanza, dall’ombra lunga del loro non aver potuto allevare, curare, proteggere, essere madri.
L’emergenza della guerra rende ogni gesto, così come l’avvicendarsi di ogni snodo narrativo, aspro e necessario come necessario è il far fronte alle cose. Restar dritti, guardare negli occhi, perché quando conosci la guerra essere forti coincide con il fare quel che c’è da fare, nient’altro (lo scrisse Natasha Radojcic-Kane in Ritorno a casa, un romanzo del 2003 idealmente in dialogo con Mi limitavo ad amare te). "Si è nati e si resta in vita", Rosella Postorino fa dire a uno dei suoi commoventi e tanto credibili personaggi, e quel restare in vita solo è dato se si affrontano gli avvenimenti, dentro sé intanto in forma sottile, talvolta inavvertita, sempre andando in cerca dell’origine, rincorrendo il principio, la radice: la madre. Estenuanti viaggi, controlli, soprusi, difficoltà; arrivare in Italia trovando riparo da suore, o presso famiglie che non saranno mai le proprie, che pur nel calore non fanno che scavare all’infinito il solco dei segni che assedio e tensione spietata di guerra hanno inciso sui cuori. L’autrice compone il suo affresco inanellando fatti e moti interni, gesti e sentimenti, con la chiarezza di chi ha saputo molto documentarsi e poi, utilizzando la lente d’ingrandimento dell’urgenza di narrare, è tornato a osservare la stessa storia e l’ha descritta, e scrivendola l’ha dipinta, ampia, dolorosa, scalfita eppure piena di quella materia inesauribile che è vivere.