lunedì 26 settembre 2011
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La stampa internazionale li ha paragonati agli Stradivari, altri alle Ferrari. Pianisti come Brendel, Perahia, Ciccolini, Hewitt li richiedono per le loro tournée. Hanno affascinato jazzisti come Stefano Bollani. Herbie Hancock ne ha preteso uno nella serata dei Grammy del 2008, affiancandolo allo Steinway di Lang Lang. Si possono sentire alla Carnegie di New York come alla Suntory Hall di Tokyo. Il sultano del Brunei ne ha voluto uno intarsiato con pietre preziose. Sono i pianoforti di Paolo Fazioli. "L’ingegnere", come lo chiamano, li produce da 30 anni a Sacile, profondo Nord Est, da dove ha lanciato la sua sfida ai big del gran coda. Era il 1981 quando Fazioli, romano, laurea in ingegneria meccanica e diploma in pianoforte, apriva la sua fabbrica in un angolo dell’azienda di famiglia, specializzata in mobili per ufficio. Cinque strumenti all’anno, realizzati interamente a mano secondo un progetto innovativo e un’attenzione maniacale alla qualità. Oggi dall’azienda di Sacile, passata a 14.000 metri quadrati di superficie (con annesso auditorium, inaugurato nel 2004), 40 dipendenti e cinque milioni di fatturato, escono 120 strumenti all’anno. Eppure Fazioli ricorda bene il primo cliente: «Un vecchio maestro di musica di Pordenone, un uomo di altri tempi. Aveva anche una magnifica orchestra di liscio. Gli feci uno sconto enorme. Ma mi dissi che pure da qualche parte bisognava pure cominciare».Trenta anni fa in molti le avranno dato del matto.Sì, ma non fu una follia. Certo il cuore ebbe un peso importante. Ma era supportato dall’esperienza della mia famiglia. Fu chiaro subito che non saremmo stati accettati con facilità dal mercato. Cominciammo con livelli di produzione contenuti, puntando sulla qualità. Una scelta che ci ha premiato.Che tipo di strumento aveva in mente?Cercavo un suono che non trovavo in nessun pianoforte. Un suono "italiano", duttile e brillante, ricco di colori, limpido. Per ottenerlo abbiamo lavorato su tutto, dai materiali ai singoli dettagli progettuali. Per questo ora stiamo lavorando con il Politecnico di Milano per capire se esiste un modello matematico che governa ogni rapporto.Come la guardarono le grandi case?Con scetticismo, a volte con sufficienza. Ma anche con rispetto. I tedeschi come Steinway e Bösendorfer mi presero per eccentrico ma capirono anche che facevo sul serio. Mi ammiravano perché nessuno di loro si sarebbe mai sognato di iniziare da zero a fare pianoforti. Secondo loro non si può fare quasi nulla senza una forte tradizione alle spalle. Io la tradizione non l’avevo. Però mi dicevo di avere un cervello e pure i miei collaboratori.In un mercato in crisi come quello del pianoforte, lei vende il 95% degli strumenti all’estero. Quando avvenne il salto internazionale?Subito: il terzo pianoforte andò in Germania. Una nazione dove anche i benzinai vanno all’opera. Sacile da questo punto di vista è strategica. Siamo è a 60 km da Venezia e dal suo aeroporto internazionale mentre il mondo tedesco è a pochi passi. Sacile è già in Europa.In Italia invece la musica è meno di una cenerentola. Come rilanciarla?Dalla scuola, dalle famiglie, dai media. In Italia c’è una carenza di cultura musicale a tutti i livelli. È una situazione che deriva da una classe politica disastrosa. In Polonia, ad esempio, stanno investendo in modo impressionante: scuole di musica, conservatori, acquisti di strumenti. Ma ci sono stati gravi errori tra gli addetti ai lavori. Gli insegnanti hanno considerato il dilettante una specie di animale da abbattere. In Germania di dilettanti ce ne sono un’infinità. E comprano dischi e strumenti, vanno a concerti. Suonano male? Ma chi se ne importa!E un fenomeno come quello di Allevi come lo giudica?Quella di Allevi è stata un’operazione di marketing furba. Ha individuato una vasta fetta di pubblico che la musica classica si è lasciata scappare facendo sentire un lebbroso chi va ai concerti senza essere preparato. La cecità è stata anche degli operatori culturali. Chi aveva voglia di musica diversa da pop o rock ha trovato Allevi. Persone normali, che si entusiasmano per quelle che, dopo tutto, sono musichette. Ma che fanno stare bene e arrivano con facilità. Lui, come Einuadi, però è stato bravo a portare il pianoforte fra la folla.I suoi strumenti non sono per tutte le tasche. Quanti sono quelli destinati alle sale da concerto? E qual è il rischio che il pianoforte Fazioli diventi un bene ricercato solo per il nome?I pianoforti destinati a sale, conservatori, scuole di musica, studi di registrazione oggi costituiscono la parte preponderante. Russia e Cina sono mercati in crescita da questo punto di vista. Ma, certo, il rischio c’è. Pianoforti come quelli per il sultano del Brunei hanno fatto scalpore. Il nostro spirito è accettare le sfide ma il pericolo è di passare per quelli che possono fare le cose più stravaganti. Lo combatto allargando le presenze nei concorsi internazionali. Non è facile. Le pressioni per non farci entrare sono molte. I big come Steinway, Yamaha e Kawai non sono espliciti al proposito ma fanno in modo che le difficoltà non manchino. A Varsavia siamo entrati dopo anni di tentativi. A Mosca ho fatto la faccia tosta e sono andato a parlare direttamente con Gergiev. Ha funzionato.
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