30 ottobre 1974 a Kinshasa si affrontano il campione in carica George Foreman e il redivivo re dei massimi Muhammad Ali che trionferà all'8 round - archivio
Settimo round, il penultimo atto. “I due pugili durante il riposo, non hanno voluto sedersi sullo sgabello. Foreman è rimasto con la schiena sulla colonnina dell’angolo, lo sguardo fisso verso il centro del ring, le spalle e il collo indolenziti offerti alle manie sapienti del vecchio Archie; Ali ha appoggiato gli avambracci sulle corde, la faccia rivolta alle prime file degli spettatori intento ad ascoltare le parole del dottor Pacheco in cerca di conferme sulle sue condizioni”. Così Claudio Colombo nel suo magnifico e nostalgico, specie per chi ama la nobile arte pugilistica, Giù la testa (Hoepli) ci riporta al bordo del ring di Kinshasa (ex Zaire, ora capitale della Repubblica Democratica del Congo) dove il 30 ottobre del 1974 il campione in carica dei massimi, George Foreman e l’ex re della categoria, lo sfidante, Cassius Clay, alias Muhammad Ali, diedero vita a un match che ha cambiato per sempre la storia della boxe, e non solo. In giorni cupi, spazzati da mille venti bellici, come questi che stiamo vivendo, statene certi, Muhammad Ali non si sarebbe mai piegato alla follia dei signori della guerra. Per tornare sul trono fu costretto a combattere la sua guerra contro i governanti di un’America ancora fortemente razzista. Uno scontro ad armi impari, un uno contro tutti, una sfida a cui quella montagna esplosiva di muscoli, 98 kg su 191 centimetri di altezza, con un cervello altrettanto potente, ha rischiato di soccombere e di sparire per sempre dai radar della storia che invece, Colombo docet, ancora oggi che non c’è più (morì consumato dal Parkinson nel 2016) continuano ad avvistarlo a raccontarne e ad aggiornare il mito che va ben oltre le quattro corde che delimitano il ring.
Il 28 aprile del 1967 nel centro militare di Houston quello che all’anagrafe era registrato sotto l’identità di Cassius Clay, prima si autoproclamò con il nuovo nome da convertito all’Islam. «Mi chiamo Muhammad Ali» e poi fece il grande rifiuto: disertore della sporca guerra contro il Vietnam. Candido, con i suoi occhioni scuri, come la pelle, sgranati e il sorriso d’avorio dell’uomo forte, Ali all’ufficiale bianco che gli intimava quale fosse la sua decisione, se combattere per l’esercito americano o meno, rispose “a me i vietnamiti non mi hanno fatto niente. Ho attentamente esaminato la mia coscienza giungendo alla conclusione che non potrei rimanere fedele alla mia religione se accettassi la chiamata alle armi». Quel “no” folle, perché gridato in solitaria davanti a un Paese che in molti dei suoi Stati era inseguito e braccato dai fantasmi incappucciati del pregiudizio e dell’odio razziale, gli costò la scomunica civile. Dopo quel “no” perentorio, urlato a testa alta, con il solito ghigno di sfida del giovane favoloso, nessuno avrebbe più ricordato che quel ragazzo di famiglia contadina, il “labbro di Louisville”, a 18 anni alle Olimpiadi più umane di Roma 1960 si era messo al collo la medaglia d’oro. Cancellati anche gli scatti epocali del 22enne Cassius Clay che nel ’64 a Miami conquista la corona di campione del mondo stendendo al tappeto il grande Sonny Liston autoproclamandosi “il pugile più forte di tutti i tempi”. Tre anni dopo quel trionfo, ricco e famoso - era stato capace di cambiare 11 Cadillac - , Muhammad Ali si ritrovava con le manette ai polsi per renitenza alla leva e il divieto di combattere per i prossimi cinque anni. Un pugile divenne così il più famoso obiettore di coscienza americano. L’oblio di Ali sarebbe proseguito se, nel 1971, il procuratore di New York, Walter Mansfield, non avesse accolto la sua legittima richiesta di giustizia giudicando “arbitrario e irragionevole” l’impedimento a cui era stato condannato. Liberato da una prigionia che violava il sacrosanto diritto umano Ali tornava così sul ring per riprendersi la corona di re, che nel frattempo era passata a Joe Frazier, il quale per la stampa specializzata era il “Rocky Marciano nero”.
La dura salita per la rinascita e per arrivare fino al match con Foreman
Per arrivare a Frazier doveva ricominciare dalle sfide con Jerry Quarry, ridicolizzato in tre round e poi l’argentino Oscar Ringo Bonavena e alla fine di quel match Ali sentenziò rabbioso: “Il mio non è soltanto il successo di un pugile è il trionfo morale sulla società che tentava di annientarmi”. Ali contro tutti, irriverente con la stampa prevenuta e con gli avversari che gli si pararono davanti in carriera. Indipendente e profondamente coerente nel suo credo religioso, professato con coraggio anche quando subì minacce e i seguaci di Malcom X (leader degli afroamericani mussulmani, assassinato nel 1965, ebbe un’influenza determinante nella sua conversione), gli incendiarono la bella casa lussuosa di Chicago che negli anni dell’abbandono tutti pensavano fosse l’unico bene rimastogli. «Ma io non sono stupido, negli anni in cui combattevo e guadagnavo bene ho investito e ho avuto l’accortezza di rilevare il 70% della proprietà di un pozzo petrolifero nel Texas da cui mi giunge un reddito mensile che mi permette di vivere decorosamente». Irascibile a tratti ingestibile, un anarchico nella vita come sul quadrato, ma sempre a testa alta e mai in giù. “Giù la testa” di Claudio Colombo è infatti il riferimento, fin dalla copertina, al fermo immagine che ritrae il capo chino di Foreman colpito al volto da Ali e costretto ad inchinarsi al ritorno dell’unico vero “King” dei massimi. All’ottava ripresa, quel match epico, cominciato agli inizi di settembre del ’74, si chiuse con la vittoria di Muhammad Ali. Gong sull’incontro del secolo che in un solo colpo sparigliò anche il tavolo dello showbiz.
La boxe da quel momento divenne essenzialmente spettacolo affidandosi al king del ring Ali e alla potente e diabolica macchina organizzativa di Don King. Il manager maneggione dalla cresta cresposa sparata in aria che fin dal marzo del ’74 «stava suonando la grancassa del supermatch calcando la mano sui risvolti sociopolitici» e traslocando la sfida dalle luci sfavillanti di Las Vegas o quelle del mitico tempio newyorkese del Madison Square Garden, lì nel cuore dell’Africa nera. Nello Zaire ostaggio della dittatura feroce di Mobutu. In pochi mesi quello che dai sopralluoghi effettuati sembrava un incontro impossibile per l’assenza della benché minima struttura sportiva e alberghiera divenne l’Incontro con a margine uno show nello show che avrebbe fatto da prologo e traino al grande duello. Don King mise in piedi una Woodstock della musica nera in cui ingaggiò artisti del calibro del re del soul James Brown, quello del blues B.B.King e la regina dell’afro Miriam Makeba. Ma la star assoluta era lui Muhammad Ali. Accolto al suo atterraggio a Kinshasa da una folla ossannante che in coro intonava quell’inno di battaglia che divenne il mantra di un intero paese: «Alì boma ye. Ali uccidilo». Ma fu il popolo zairese, con la sua indifferenza e il tifo contro ad “uccidere” Foreman. Ad attendere il campione non c’era quasi nessuno perché ormai lo Zaire era nelle mani di Ali, stregato dal carisma contagioso del suo idolo che nei giorni della preparazione al match e specie in quelli in cui dovette attendere la ripresa dall’infortunio di Foreman -che portò allo slittamento del 30 ottobre - tenne conferenze che erano dei comizi d’amore verso l’Africa tutta. Un’autentica campagna elettorale in stile black panther in cui mandò in visibilio la popolazione portandola completamente dalla sua parte e trasformando il suo avversario in un nemico giurato. Foreman è un belga bianco urlò alla folla. Ali, come gli aveva insegnato il suo fido manager Angelo Dundee, nato Mirena da famiglia cosentina di Roggiano Gravina, sapeva volare come una farfalla e pungere come un ape, dentro e fuori dal ring. In quel match si giocava un pezzo importante della sua anima davanti ad Allah e in quei round era chiamato a riprendersi il tempo perduto, usurpato e tolto da un tribunale bianco e ingiusto che lì in Zaire era l’ombra di un imperialismo occidentale dal quale quel popolo credeva di essersi liberato. Sobillato dal dittatore Mobutu gli zairesi pensavano di diventare il centro del nuovo rinascimento africano.
"Rumble the jungle", e i racconti da Oscar. Minà che entra nello spogliatoio di Ali
A quella grande illusione rivoluzionaria contribuì notevolmente la potenza mediatica e anche il grande impatto agonistico di quello che nella storia del pugilato rimarrà come il Rumble the jungle. Il tamburo battente di un popolo che aveva la sua costituzione e poteva assistere al più grande spettacolo sportivo mai visto prima a quelle latitudini. Panem et circenses, sbarcato direttamente dall’America con i più grandi protagonisti di un pugilato che ispirò la penna onirica di Norman Mailer che con i suoi testi da new journalism romanzato andò ad impreziosire The Fight il libro fotografico con gli scatti meravigliosi di Neil Leifer e Howard L.Bingham. A bordo ring a fianco di Norman Mailer se ne stava seduto, davvero pallido e assorto, un altro grande inviato e scrittore, George Plimpton che Colombo in Giù la testa ricorda «ebbe un momento di sbandamento quando vide Ali piegato sulle corde incassare i terribili colpi di Foreman. Come scrive nel suo prezioso libro Shadow Box, urlò proprio a Mailer: “Norman, l’incontro è truccato!». Poi nel proseguio del match Plimpton cambiò opinione e si convinse che era da considerare “onesti” l’andamento e l’esito finale in favore di Ali. La foto del ko venne scattata da Ken Regan che dalla copertina di Sport Illustrated fece il giro del mondo. In Italia le immagini del match che venne visto in mondovisione da quasi 1 miliardo di telespettatori venne dato in differita dalla Rai la serata del 30 ottobre, ma 7 milioni di italiani del Nord che captavano il segnale di Telecapodistria lo videro trasmesso in diretta dall’emittente jugoslava, con il commento di Sandro Damiani. Altro evento epocale, come lo spiegamento di inviati dei giornali che ancora la facevano da padroni e sulle pagine dei nostri quotidiani Muhammad Ali veniva ancora chiamato Cassius Clay. Gianni Minà, amico di Ali sin dai giorni di Roma 1960 capitanava la truppa cammellata della Rai ed era tra i privilegiati ammessi agli incontri privati di cui ricordava sorridendo sotto i baffi il segreto di quel successo: «Muhammad aveva costruito il suo trionfo in quei giorni di rivisitazione della terra degli avi». E dopo il match l’impavido Minà entrò nello spogliatoio del campione che sdraiato sul lettino con a fianco la moglie Belinda (che poi avrebbe lasciato per il tradimento consumatosi in quei giorni con la futura sposa, l’hostess Veronica Porsche) disse sorridendo all’amico italiano: «Stasera sul ring c’era Allah». Una notte divina e regale che ventidue anni dopo è diventato il più bel docufilm sportivo mai apparso sui grandi schermi: When we were kings, “Quando eravamo re” del regista Leon Gast, Premio Oscar 1997. E la sensazione forte di chi ha assistito a quel match, specie se dal vivo, è davvero quello di un momento in cui ognuno si è sentito re, padrone di un pezzo di storia condivisa, stando al fianco, anzi all’angolo del più grande pugile di sempre. E questa volta lo diciamo noi. E anche se il popolo zairese gli chiedeva di uccidere il suo avversario, Ali invece ha mantenuto in vita il pugilato e ha portato avanti tutte le battaglie civili fino all’ultimo giorno in cui è rimasta accesa la sua luce. La torcia dell’eterno tedoforo che illumina ancora quella storia di Zaire ‘74 e fa brillare di luce propria un mito, che non avrà mai fine.