Paolo VI riceve il vescovo di San Salvador, Óscar Romero. È il 21 giugno 1978
Non è casuale la canonizzazione congiunta di Óscar Romero e Giovan Battista Montini/Paolo VI. I due hanno in comune un’epoca della Chiesa e del mondo di cui sono stati protagonisti con gli stessi ideali di giustizia e di pace. E il rapporto fra Romero e Paolo VI è stato, da entrambe le parti, più profondo di quanto tre soli colloqui e qualche altro fuggevole saluto lascino immaginare. Romero si riferiva costantemente a Paolo VI. Quest’ultimo seguiva attentamente la situazione salvadoregna e dava fiducia a Romero. Tra i due c’era comprensione e affetto al di là dei differenti ruoli e anche della trepida commozione che Romero sempre provava al cospetto del Papa, nulla di meno ai suoi occhi che un «dulce Cristo de la tierra». Sul piano storico-politico, possiamo dire che Paolo VI protesse Romero. A Roma era un diluvio di voci negative sull’arcivescovo di San Salvador. Lo accusavano di essere un politicante, un sovversivo comunista, un eretico, finanche un infermo mentale. Famiglie dell’oligarchia salvadoregna, esponenti del regime militare, ambienti ecclesiastici avversi diffamavano l’arcivescovo che chiedeva giustizia sociale in un paese che non ne aveva mai avuta, e lo faceva con un’autorità morale mai vista in Salvador. Il popolo infatti era affascinato da Romero, dalla sua passione pastorale, dalla predicazione veemente, dal coraggio profetico, dalla compassione per i poveri. Da vescovo della periferica Santiago de María, Romero s’era già intrattenuto personalmente con Paolo VI nel 1975. Lo avrebbe di nuovo incontrato da arcivescovo.
Nel marzo 1977, appena insediatosi nella capitale nella sua nuova veste, Romero si scontrò con il governo che insabbiava le indagini sull’assassinio del suo più caro amico, il gesuita Rutilio Grande, parroco rurale che viveva da povero tra poveri campesinos, alcuni dei quali avevano avanzato richieste sindacali. La protesta di Romero si espresse nella richiesta a tutte le parrocchie dell’arcidiocesi di astenersi dalla celebrazione domenicale per confluire nella cosiddetta «messa unica» che radunò presso la cattedrale di San Salvador 100.000 fedeli, ma fu disapprovata dal nunzio che cercava di mantenere buone relazioni con le autorità e parimenti da alcuni vescovi del paese. Romero si recò immediatamente a Roma. Il 26 marzo Paolo VI lo riconobbe all’udienza generale del mercoledì e volle subito riceverlo. Gli disse fraternamente una frase che Romero registrò nell’anima e nella mente. Era l’incoraggiamento di cui aveva bisogno: «Coraggio, è lei che comanda!» (¡ Ánimo, usted es el que manda!). Ma il più significativo incontro di Romero con Paolo VI avvenne il 21 giugno 1978, poco tempo prima della morte del Papa, il 6 agosto. Era un momento molto difficile per l’arcivescovo, osteggiato in patria dai poteri oligarchici e militari che perseguitavano la sua Chiesa e avevano già ucciso vari preti, mentre doveva difendersi dai detrattori che cercavano di farlo rimuovere o esautorare dalla Santa Sede. Già correva voce, in Curia, di un eventuale visitatore apostolico per San Salvador. Romero venne a Roma per confutare le informazioni negative diffuse contro di lui. Poche settimane prima aveva detto ai fedeli, con risolutezza: «Ben ricordo quelle parole che mi hanno dato tanto coraggio l’anno passato: “¡ Ánimo! ¡Ánimo! – mi diceva il Papa –, usted es el que manda, usted es el que manda”. E non posso tacere che nella mia comunione con il Papa sta tutto il segreto della mia parola e del mio orientamento verso il popolo. Il giorno in cui il Papa mi disconoscesse, non fosse d’accordo con ciò che io predico e faccio, me lo farà vedere. E allora dirò in tutta umiltà: “Fratelli, perdono, vi stavo ingannando; io mi ritiro, che venga un altro con più fiducia del Santo Padre”» (omelia del 9 aprile 1978). In questo viaggio del giugno 1978, i primi incontri nei dicasteri curiali indussero Romero a lasciare a Paolo VI, durante l’udienza concessagli, una nota in cui scriveva: «Lamento, Santo Padre, che nelle osservazioni presentatemi qui in Roma sulla mia condotta pastorale prevale un’interpretazione negativa che coincide esattamente con le potentissime forze che là, nella mia arcidiocesi, cercano di frenare e screditare il mio sforzo apostolico ». Vale la pena seguire questo suo viaggio a Roma con le sue parole, consegnate al diario intimo o ad altri scritti e discorsi del periodo. Il 21 giugno, come ogni merco-ledì, c’era l’udienza generale, che quel giorno era resa speciale dal quindicesimo anniversario di quel 21 giugno del 1963 in cui Giovanni Battista Montini era stato eletto, come scriveva Romero, «successore di San Pietro».
Nel Diario, prima di raccontare il colloquio con il papa, l’arcivescovo di San Salvador descrive l’udienza generale in termini di «immensa gioia» e di «esplosione di amore». L’incontro intimo con Paolo VI, in una saletta attigua all’aula delle grandi udienze, è presentato da Romero come un «momento emozionante », anche se non era certo il primo, e anzi sarà l’ultimo ad aver luogo tra i due. Così Romero: «[Paolo VI] mi ha stretto la mano destra e la ha trattenuta a lungo fra le sue due mani e pure io ho stretto con le mie due mani la mano del Papa. Avrei desiderato, per questo momento, una fotografia per esprimere quell’intima comunione di un vescovo con il centro dell’unità cattolica. E tenendomi le mani in quel modo mi ha parlato lungamente. Vi sarebbe difficile ripetere parola per parola il suo lungo messaggio, perché oltre al fatto che non è stato schematico, ma piuttosto cordiale, ampio, generoso, l’emozione del momento non era certo adatta per farmelo ricordare a memoria; però le idee dominanti delle sue parole sono state queste: “Comprendo il suo difficile lavoro. È un lavoro che può essere incompreso ed ha bisogno di molta pazienza e fortezza. So bene che non tutti la pensano come lei; è difficile, nelle circostanze del suo paese, avere tale unanimità di pensiero; ma vada avanti con coraggio, con pazienza, con forza, con speranza”. Mi ha promesso che avrebbe pregato molto per me e per la mia diocesi. Mi ha chiesto di compiere ogni sforzo possibile per l’unità. E se in qualcosa poteva egli personalmente essere utile, lo avrebbe fatto con piacere. Si è riferito poi al popolo. Ha detto che lo conosceva da quando aveva incominciato a lavorare nella Segreteria di Stato, da quasi cinquant’anni, ed è un popolo generoso, lavoratore e che oggi soffre molto e cerca le sue rivendicazioni. Mi ha detto che bisogna aiutarlo, lavorare in suo favore (...). Bisogna fargli sentire il valore della sua sofferenza, predicare la pace e fare che questo popolo sappia come il Papa gli vuole bene, come prega e lavora per lui. Ha parlato anche di difficoltà che si possono superare solo con l’amore. (...) Io gli ho ripetuto che è questo il modo in cui cerco di predicare, annunciando l’amore, chiamando alla conversione. Gli ho detto che molte volte abbiamo ripetuto il suo messaggio del giorno della pace: “No alla violenza, sì alla pace”. Gli ho assicurato la mia adesione indistruttibile al magistero della Chiesa. (...) Il Papa mi ha detto nuovamente che avrebbe pregato molto per noi e che gli dicessimo cosa può fare, lui, per aiutarci […] Infine ha detto “Facciamo una fotografia”; ed è entrato il fotografo per darci questo piacere da parte del Santo Padre […a testimonianza di] quel momento indimenticabile. Mi dispiace non ricordare più le parole; però sostanzialmente, sono state quelle che ho riferito. A me ha lasciato la soddisfazione di una conferma nella mia fede, nel mio servizio, della mia gioia di lavorare di soffrire con Cristo, per la Chiesa e per il nostro popolo. Credo che anche questo solo momento basterebbe per ripagare tutti gli sforzi per venire a Roma. […] Il Papa è molto informato sulla situazione e vuole che dialoghiamo più a fondo dei problemi concreti con le sue diverse segreterie. Ma la sua parola, che è quella principale in questa comunione, è una parola di speranza di incoraggiamento, e, come ho già detto mi ha riconfermato nella mia volontà di servire con amore il nostro popolo come inviato dalla Chiesa di Gesù Cristo».