Folle di visitatori in processione e religioso silenzio; nugoli di persone che sciamano da una sala all’altra, per vedere Rodin al Grand Palais. Non c’è solo il centenario, c’è anche “Le Livre du centenaire” che è più che un catalogo, poiché ambisce a essere il testimone che terrà legati per sempre al nome di Rodin tutti quelli – e sono tanti – che questa mostra vuole porre sotto l’influenza del grande scultore. Nella prima sala, dove sono esposte parecchie opere di Rodin, accanto al gesso patinato del Pensatore – opera universalmente nota e riprodotta in tutte le salse – s’impone il gigante seduto di Georg Baselitz, Volk Ding Zero, che scombina le carte (per lo meno quelle visive, ponendosi come un pugno in un occhio). Il Pensatore è alto poco meno di due metri e ha una patina chiara uniforme; la scultura di Baselitz, che sembra scolpita con l’accetta, è alta tre metri, imita la superficie di un legno, ma in realtà è di bronzo patinato dipinto di azzurro, bianco e color legno chiaro. Che rapporto c’è fra queste due opere che autorizzi a porle vicine? Le figure sono entrambe sedute. E poi? Nient’altro.
Al piano di sopra, in una grande sala allestita più come il deposito di un museo che come luogo dove la scultura può generare attorno a sé uno spazio, veniamo accolti dall’Homme qui marche, nel quale Rodin elabora la poetica del frammento e dell’eredità classica mostrandoci il corpo acefalo di un uomo che cammina. L’elemento plastico ha una notevole forza nel mettere in discussione il canone antico secondo una idea di “espressione” che Rodin, certamente, mutua da Michelangelo, ma con quella modernità sintetica, brachilogica nella resa delle forme, che la rende nostra contemporanea; vuole marcare una soluzione di continuità nel corso storico del canone occidentale, e superare la dialettica fra classicismo e romanticismo.
Quel corpo umano, se anche non avesse una parvenza antropomorfica, cioè un rimando palese alla forma umana, sarebbe pur sempre in grado di parlarci di noi, del nostro essere nel mondo, però senza alcuna tragicità. Il fatto che manchino la testa e le braccia è accidentale, come accade in molta statuaria antica che ci è giunta priva di parti fondamentali del corpo (braccia, gambe, teste appunto) per le offese portate dal tempo e dai rivolgimenti storici; accidente che è diventato, tuttavia, sostanza nella poetica romantica del frammento, secondo la dialettica fra storia e natura. E anche come impulso a far grande, rispetto alla vastità del cosmo, che in Rodin diventa epica, ma anche inciampo simbolico. L’uomo acefalo di Rodin è una scultura non collocabile nell’orizzonte esistenziale. In mostra, però, essa viene presentata accanto all’Homme qui marche di Alberto Giacometti, un’opera in gesso dipinto del 1960, alta poco meno della figura di Rodin.
Che cos’hanno in comune queste due opere? Il camminare. E poi? Nient’altro. In realtà sono agli antipodi. Giacometti ci fa vedere un uomo anatomicamente quasi completo, cioè dotato anche di una delle due braccia e della testa, il cui corpo però è disseccato come quello di una mummia, è una sorta di ombra albina; il richiamo agli etruschi ci sta, ma il rapporto è anche con la funeraria egizia. E poi quel gesso appena sporcato dal lavoro dello scultore, il suo bianco allucinato, che mi fa pensare a René Crevel (che Giacometti conobbe), la sua fobia per il bianco come colore della morte e della malattia. Crevel era affetto da tubercolosi e si era curato in Svizzera, a Davos; non amava la montagna, perché gli ricordava la fatica, e l’amava ancora meno quando era innevata (il bianco rimanda al sanatorio, alla soglia dell’autodistruzione e, infine, al suicidio). Rodin pensa come se portasse alla luce la forma da un blocco di materia (imitando Michelangelo quando lavora il marmo); Giacometti si trova a dover arginare con le mani l’emorragia materica che si verifica per lo schiacciamento prodotto dallo spazio e dalle forze che operano in esso, in primis la forza di gravità, che erodono via via il corpo fino allo stabilizzarsi della forma in una larva che, in realtà, esprime il sentimento del nulla, l’esistenzialismo di marca sartriana, che in Giacometti non ha una valenza ideologica, ma il senso tragico di qualcosa che passando dall’occhio fa il vuoto dentro di lui, e lo risucchia nel suo spazio come una voragine.
A separare queste due opere c’è molto più che mezzo secolo di tempo cronologico, c’è l’abisso scavato da due guerre mondiali devastanti. E qui entra un discorso che mi sta particolarmente a cuore, perché sarebbe stato il modo più suggestivo per celebrare questo centenario. Che non è soltanto il centenario di Rodin, perché nel 1917 la Francia perse un altro gigante, che ha fatto e tuttora fa concorrenza a Rodin nella scultura. Parlo di Edgar Degas. Anche lui morì un secolo fa (Parigi lo ricorderà in autunno); anche lui, come Rodin, venne seppellito nel silenzio generale imposto da una guerra che aveva bagnato le terre francesi col sangue di centinaia di migliaia di giovani. Parigi era minacciata; ma Rodin, a settantasette anni, aveva un pensiero fisso: la creazione del suo museo (con l’appoggio dello Stato) all’Hôtel Biron, per garantirsi fama postuma. Il ministro del Commercio il 1° aprile 1916 gli aveva fatto firmare un contratto provvisorio di donazione allo Stato. Un pesce d’aprile del destino: Rodin morì l’anno dopo, il 17 novembre, e lo Stato, nel silenzio imposto dalla guerra, incamerò le sue opere. Degas da qualche anno era ridotto pressoché alla cecità e verso la fine viveva allettato. Anche lui, due mesi prima di Rodin, era morto nell’indifferenza generale. Procedendo all’inventario del suo atelier, trovarono decine di sculture in cera, molte a pezzi. Ne recuperarono una settantina.
Le chiusero in una cantina per salvarle dai furori bellici e le riesumarono nel 1919, per fonderle in bronzo. Per molto tempo si pensò che le cere – le vere opere originali – fossero andare perdute finché si seppe, a metà del Novecento, che un magnate americano, Paul Mellon, le aveva acquistate per donarle in gran parte alla National Gallery di Washington. Ecco dunque che la vera mostra del centenario sarebbe stata quella di porre uno di fronte all’altro Rodin e Degas, anziché voler dimostrare il peso che l’artefice del Pensatore ha esercitato su generazioni di artisti a lui contemporanei o successivi: da Meštrovic a Bourdelle, da Zadkine a Maillol Moore Picasso Matisse Lipchtiz Fautrier e chi più vuole più ne metta (poi si arriva, come accade in mostra, ad Annette Messager, ed è chiaro che l’idea di fondo si rivela labile).
Non intendo negare la grandezza di Rodin: Iris messaggera degli dèi è un capolavoro assoluto, e non è l’unico di Rodin, il quale nel disegno raggiunge esiti straordinari, poi però disattesi da una scultura che si presenta sempre un po’ statica. La capacità di appropriarsi di ogni mezzo e forma che la storia ci ha trasmesso, il richiamo costante a Michelangelo (che tuttavia in ogni opera plastica ci appare più moderno e più universale di Rodin), lo portano a riscattare un immaginario fermo all’accademismo enfatico. Ma qui entra Degas. Lamberto Vitali mezzo secolo fa scrisse che i progressi della scultura moderna si dovevano più ai pittori che agli scultori puri. Il ventaglio si apriva con Géricault allargandosi a Courbet, Moreau, Renoir e Gauguin, Bonnard, Giacometti e Max Ernst, Modigliani, Boccioni... Degas è l’artista che ha reso più evidenti le possibilità di uno sguardo libero dallo specialismo. E Anne Pingeot, scrivendo sul tema dei pittori-scultori e sull’influenza giocata da Degas, ha concluso che con Matisse e Picasso si esaurisce anche il senso di questa distinzione e si apre lo spazio “totale” dell’arte.
Chi dunque ha saputo spingersi più avanti fra Rodin e Degas? Certe “cerebralità” oggi tipiche dell’arte possono forse riportare in auge Rodin, anche come profeta postmoderno. Ma con Degas misuriamo tutta la poetica dell’intensità interiore, dell’esistenzialità della ricerca formale, che trova il suo significato vitale nel gesto stesso della creazione (celebre l’episodio di Vollard che vede una ballerina di Degas quasi finita, e tornando il giorno dopo per comprarla la trova ridotta a una palla di cera: «per il piacere di ricominciare», gli spiega Degas). Certo è che questa mostra, verso le ultime sale, rende evidente quanto Rodin manchi di leggerezza e di poesia. Era rimasto impressionato dalla musica di Debussy, dalle movenze di Isadora Duncan, e in particolare da quelle del danzatore russo Vaslav Nijinsky. Ma nelle sculturine che realizzò nel 1911 ci senti un peso, la forza di gravità, una staticità che in quelle di Degas, forse meno definite, o se si vuole non finite, si libera in energia, come se l’artista disegnasse nel vuoto. Come materia trasfigurata in un tempo sublime.