Il lanciatore del disco Rigivan Ganeshamoorthy durante la gara alle Paralimpiadi di Parigi - Eva Pavía / CIP
Ci sono gioia e incredulità nell’animo di un venticinquenne romano, il più bravo tra i tetraplegici a lanciare da seduto il disco, nel momento in cui lo speaker dello Stade de France lo invita a occupare la posizione centrale del podio. È seduto in carrozzina e ha il tubicino per l’ossigenoterapia nelle narici, ma Rigivan Ganeshamoorthy accoglie la medaglia come fosse un dono da presentare al cielo.
Rigi, si rende conto di quello che ha combinato?
«Ancora non ho capito niente, so solo che la medaglia pesa tanto perché il collo mi fa male».
Cosa ha provato mentre sentiva l’Inno di Mameli?
«Emozioni, brividi e pelle d’oca, quando ho visto la bandiera che saliva più in altro di tutte, ho compreso che ero stato più bravo degli altri».
Dica la verità, si aspettava di vincere e di stabilire tre volte il record del mondo?
«No. Mi sono allenato fortemente dopo aver ottenuto la tanta agognata classificazione, perché volevo far vedere chi sono a livello sportivo, ma non pensavo di lanciare così lungo».
Gli avversari ci sono rimasti male?
«Aver dato loro un distacco così ampio non è stato forse bello, ma di sicuro questo li stimolerà a crescere per battermi».
E pensare che ha iniziato a fare gare internazionali solo due mesi fa...
«Ottenere la classificazione nella classe F52 ha richiesto tempo. Appena ottenuta mi hanno detto che per qualificarmi per i Giochi avrei dovuto fare la misura standard e così sono andato ai Campionati italiani. A Brescia in due giorni ho fatto il record del mondo del giavellotto, la miglior prestazione mondiale stagionale nel disco e ho mancato il record del mondo del peso per un solo centimetro. Prima di quel weekend mi ero limitato a fare garette regionali e lanciavo solo per il gusto di divertirmi».
E adesso cosa può rappresentare lo sport per lei?
«Non ho ancora pensato al futuro, ma credo che questo oro mi potrà aprire nuove porte e magari anche far fare carriera in un gruppo sportivo. Vedremo cosa mi riserverà l’avvenire».
Ci racconti brevemente di lei.
«Sono nato a Roma l’8 giungo 1999, sono cresciuto nel quartiere Dragona, dove ho fatto le scuole elementari e medie. Portare a termine le superiori è stato complicato. Poi nel 2017 è arrivata la malattia, con la sindrome di Guillain-Barré. È stata una cosa negativa che mi ha portato tante cose positive».
Prima della malattia non aveva mai praticato attività fisica?
«Nulla, ero un sedentario. Poi durante la riabilitazione dentro il Santa Lucia, l’ospedale di Roma dove ero ricoverato, ho conosciuto il basket in carrozzina. La sera sotto la mia stanza si allenavano gli atleti del club e allora ho voluto provarlo anche io».
È un cestista mancato allora?
«No, perché ho subito cambiato. Durante la riabilitazione in acqua con un’istruttrice di nuoto paralimpico ho provato anche a fare qualche bracciata. Ovviamente mi sono buttato in piscina a livello sempre amatoriale».
E all’atletica come è approdato?
«Per puro caso. Stavo nell’officina di un amico, dove facevo il meccanico per hobby, e lì ho conosciuto Arianna Mainardi, che ai tempi lavorava alla Fispes mentre ora è al Cip. Quando mi ha visto smontare il motore pur essendo disabile, oppure muovermi dentro il cofano è rimasta incredula e mi ha invitato ad andare al campo per provare».
Lei ha seguito il consiglio?
«Sì, e subito dopo ho conosciuto Nadia Checchini, che mi ha insegnato a lanciare. Appena ha visto l’apertura delle mie braccia mi ha detto che avrei fatto grandi cose. Così ho appreso pian piano la tecnica e ho cominciato a divertirmi in queste specialità».
Dove si allena?
«Sotto casa, in un campo di grano, in mezzo alle pannocchie, dell’azienda Corsetti. Se non mi credete vi faccio vedere le foto. Mi sono fatto una sedia per lanciare, mentre la mia compagna Alice picchetta il perimetro e va a riprendere ogni volta il disco. Ogni tanto poi vado allo stadio delle Tre Fontane, al centro della Fispes, e per il resto faccio allenamento di forza in una palestra di Ostia col mio personal trainer Enrico Ruffini. Sono tesserato per l’Anthropos di Civitanova Marche».
Come mai ci ha messo tanto tempo per raggiungere l’alto livello?
«Perché nel frattempo mi sono capitati una serie di inconvenienti fisici. Qualche garetta interregionale l’avevo fatta e anche i risultati erano discreti, ma poi sono caduto una prima volta e mi sono rotto la cervicale, e così da paraplegico sono diventato tetraplegico. Un trauma su un altro trauma, ma che mi ha reso ancora più forte. Poi sono caduto una seconda volta».
Farà altre gare ai Giochi?
«Ho deciso di non fare il giavellotto, dove pure detengo il record del mondo, perché la categoria F52, avendo pochi iscritti, è stata accorpata alla F54, quella dei paraplegici, e quindi non voglio rischiare di dover andare oltre i miei limiti per vincere. Nella vita io sono seduto su una sedia, le braccia mi servono come il pane, se mi strappo un muscolo non posso fare più niente. Vincere un oro e avere un braccio sfasciato non mi interessa. Voglio tutelare il mio corpo. Nel giavellotto serve forza addominale e dorsale, muscoli che la mia patologia impedisce di allenare».
Cosa ha significato per lei sfilare durante la cerimonia d’apertura?
«Un’emozione bellissima, lì per lì non me ne sono reso conto, poi dopo qualche giorno ci ho rimuginato e allora mi si è aperto un mondo».
E dell’incontro col presidente della Repubblica cosa ricorda?
«La foto che si è voluto fare con me. Ero già felicissimo per averlo visto da lontano, mi sono messo quindi in un angolo a mangiare, poi quando mi è passato vicino abbiamo fatto lo scatto. Anche se il mio cognome risente dell’origine di Sri Lanka dei miei genitori, io sono italianissimo. Alla nascita avevo entrambe le cittadinanze, poi a 18 anni ho optato solo per l’italiana».
È romanista o laziale?
«Il calcio non mi interessa proprio. Simpatizzo per la Roma, però ho la maggior parte degli amici tutti laziali, quindi meglio che sto zitto. Preferisco parlare di atletica».