martedì 3 marzo 2009
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Voler ridefinire il senso che potrebbe avere un genere letterario come il "romanzo poliziesco" o il "noir", che da una decina d’anni va per la maggiore nelle librerie italiane (basti guardare la classifica dei best-seller) sia per quanto riguarda la narrativa di casa nostra, sia per quanto riguarda i romanzi tradotti dall’estero, sembra una provocazione. Soprattutto se è un romanzo a costruire questa invettiva, a partire proprio dall’esemplare "lezione" narrativa che ne aveva fatto uno dei grandi scrittori europei del secolo scorso, Friedrich Dürrenmatt, con uno dei suoi romanzi più acuti, La promessa, che ha un sottotitolo assai indicativo in questo senso, «Un requiem per il romanzo poliziesco». Alla lezione dello scrittore svizzero guarda uno dei importanti narratori di casa nostra, Ferruccio Parazzoli, con Il tribunale dei bambini (pagine 200, euro 18.00) che esce oggi pubblicato da Mondadori e che all’inizio del libro cita espressamente Dürrenmatt, definendo questa sua opera «un requiem per il noir». Dice Parazzoli: «Riprendo alcune osservazioni sulla narrativa contemporanea che avevo posto all’attenzione dei lettori un anno fa e che avevano fatto piuttosto rumore, riguardanti il tema di uno sguardo orizzontale e di un altro verticale. Non giudico, non sono un critico. Prendo atto che il 'giallo' italiano di oggi vive di una linea unidirezionale che predilige una narrativa più schiacciata sull’orizzonte più basso, quello che sta alla superficie. C’è stata in Italia una riqualificazione eccessiva del genere giallo. Manca nel noir di oggi l’attenzione alla linea verticale, quella che porta su fino al sublime o costringe anche a guardare nell’abisso, fino agli inferi. Questo non accade solo in letteratura. Basti guardare solo qualche telegiornale per rendersi conto di quanto le notizie siano semplicemente una sequenza riguardante processi e delitti di cronaca nera. Quindi il crimine, in tutte le sue sfaccettature dalle più patetiche alle più atroci ormai è salito in primo piano e non accenna a lasciare questa posizione di primato. Ci perseguita, ci ossessiona con le immagini reali di cronaca impresse sul teleschermo che passano alla nostra testa. Lasciamo che questa 'cronaca' Nelle foto, Agatha Christie (1890-1976) «The Hound of Death», copertina di una delle prime edizioni. Georges Simenon (1903­1989) Copertina di «Un’ombra su Maigret», A. Mondadori, 1966. Sir Arthur Conan Doyle (1828-1896) Manifesto del 1901 della commedia teatrale «Sherlock Holmes». (Fototeca) diventi anche materia della narrativa, così che il noir non ha più la capacità di entrare in profondità nell’animo dell’uomo». Parazzoli pone il lettore su due piani: accelera e motiva il desiderio di entrare in questo mondo di fantasmi, rappresentato dai bambini e dalla multietnicità di certi quartieri milanesi e pone all’attenzione la possibilità di discutere il reale valore della rappresentazione del male oggi, non ha mai fatto fortuna. Del resto il 'giallista' che dialoga con il lettore sceglie la seconda ipotesi, quella della 'verticalità' del suo progetto, tanto che Parazzoli gli fa scrivere: «Ho scritto romanzi, per altro, che mai hanno avuto fortuna né mai l’avranno perché rappresentano l’assoluta negazione di quel genere di noir oggi in voga che scambia un sublime postulato metafisico con la brutalità della cronaca». La letteratura è altro per Parazzoli e anche il noir, del quale scardina le regole, a partire dai due opposti, quello dell’assassino e quello della vittima. Nel romanzo troviamo questa considerazione: «Il delitto, a chi si trovi in sua presenza, reale o virtuale, pone subito una prima domanda: perché uccidere? Non importa chi sia l’assassino – come solo i cattivi romanzieri vogliono farci credere – ma quali siano le ragioni che lo hanno spinto a uccidere. La vera sfida sta nel comprendere quanto resta nascosto, sotterraneo, inespresso. Scoprire le ragioni che hanno spinto l’assassino a uccidere vuol dire scoprire la molla che potrebbe indurre ciascuno di noi a compiere il medesimo delitto. Chi non può dirsi un potenziale assassino?». E Parazzoli azzarda una tesi più radicale per una «rifondazione del 'noir': 'Il vero protagonista di un delitto non è l’assassi­no, ma la vittima». E spiega: «Il giallo perfetto sarebbe quello che aves­se il cadavere per prota­gonista. Ma ciò, è evi­dente, non sarebbe pos­sibile, a meno che, come nelle prime scene di Am­leto la vittima non si fac­cia viva in veste di fanta­sma. Ma allora non avremmo alcun giallo su cui indagare, il mistero sa­rebbe ben altro, di natura, diciamo così, metafisica». La storia che Parazzoli ci presenta è magica e iperrealistica, anche se re­spira il senso della Milano metropo­litana e multiculturale molto verosi­mile dei quartieri intorno a Viale Monza, con la presenza dei bambi­ni che sono al centro del 'noir', un quartiere fittamente abitato, dove la presenza dei bambini si caratterizza per «la quantità e la varietà dei pic­coli vagabondi e la loro sorprenden­te capacità di comparire e scompa­rire ». Con il mistero e la storia di Mai-lù, ragazzina indonesiana, che va a servizio da molte persone del quartiere. Parazzoli spiega: «Più la vicenda avrà seguito, più il vuoto si allargherà. Il principio sarà anche la fine. La scrittura non accetta la realtà, ma la sostituisce partorendo personaggi vuoti, personaggi parto­riti per sfuggire al museo fossile del­le cronache criminali alle quali ci si ostina di porre in copertina quella ridicola dicitura di romanzo».
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