Ad eccezione del passaggio legale alla maggiore età a 18 anni, le nostre società occidentali non riconoscono il cambiamento di statuto che apre all’età adulta. Nessun rito condiviso è in grado di rendere sicuro e di delimitare il percorso di coloro che attraversano questo passaggio colmo di turbolenze. I diplomi scolastici hanno perso il loro valore simbolico di superamento radicale di una soglia, i riti religiosi vengono spesso abbandonati o vissuti nell’indifferenza, il servizio militare è sparito, le relazioni d’amore si succedono l’una all’altra, il lavoro è provvisorio e mal rimunerato. Nessun avvenimento socialmente identificato dà al giovane o alla giovane la sensazione di congedarsi dalla propria adolescenza e di essere oramai diventato un uomo o una donna. Questa libertà nel costruirsi, anche se soddisfa una grande maggioranza che avanza al proprio ritmo in un’esistenza in cui si riconosce, impone ad altri delle prove personali per convincersi di essere all’altezza.Delle società composte da individui non sono sufficientemente in grado di istituzionalizzare i ruoli, lasciano l’iniziativa ad ogni singolo attore consegnandolo al compito di differenziarsi e di forgiare la trama della sua esistenza. I riferimenti sociali e culturali si moltiplicano e si fanno concorrenza, si relativizzano reciprocamente, creando interferenze, confusione, particolarmente nei giovani i cui genitori sono frutto dell’immigrazione. Non ci sono più fondamenti sicuri e condivisi dell’esistenza. Occorre darsi una legittimazione per esistere, e talvolta farlo senza gli altri. Una società di individui sfocia nell’individualizzazione del senso, dunque nella necessità di costituire in primo luogo sé stessi. Ricerca di limiti di senso e della sensazione di esistere, di sentirsi vivi e reali nell’affrontare gli altri più vicini, che sono i genitori o ciò che appare a quest’età come l’adulto “sgradevole”. Sentirsi infine una «vera persona», come scriveva la giovane Norma Jean Mortenson quando non era ancora Marilyn Monroe. Un lento processo di avvicinamento al “sé” che implica subito per alcuni adolescenti più difficoltà che per altri nell’evidenza di esistere. Le insidie dell’ingresso nella vita non si riducono a una “semplice” crisi adolescenziale, sono più profondamente uno smarrimento del senso della vita, dunque una crisi della giovinezza nel tentativo di accedere all’età adulta. Le statistiche oggi in Francia parlano di una percentuale tra il 15% e il 20% di giovani in pieno sconforto. Le cifre per gli altri Stati occidentali sono equivalenti. Le condotte a rischio corrispondono soprattutto a dei tentativi dolorosi di ritualizzare il passaggio all’età adulta.Ricerche di limiti mai fissati o insufficientemente stabiliti, rappresentano forme di resistenza alla violenza generata spesso in famiglia (mancanza di amore, rifiuto, indifferenza, mancanza di disponibilità, conflitti, maltrattamenti, abusi sessuali, violenze fisiche o, al contrario, iperprotezione, mancanza di differenziazione) ma raddoppiata dalla società (competizione generalizzata, precarietà, emarginazione, ecc.). Anche l’interrogativo doloroso sul senso dell’esistenza, costituisce un mezzo per forzare il passaggio abbattendo il muro dell’impotenza. Simultaneamente, manifestano un tentativo di sottrarvisi, di guadagnare tempo per non morire, per continuare ancora a vivere. Il tempo, infatti, costituisce il primo rimedio alle sofferenze adolescenziali.Nelle condotte a rischio dei giovani si incrociano numerose figure antropologiche che non si escludono a vicenda, ma si intersecano: ordalie, sacrificio, candore soprattutto. L’
ordalia è un modo di giocarsi il tutto per tutto e abbandonarsi ad una prova personale per sperimentare una legittimazione a vivere che il giovane non prova ancora perché il legame sociale non è stato capace di dargliela. Egli interroga simbolicamente la morte per garantire la sua esistenza attraverso il fatto di sopravvivere. Tutte le condotte a rischio dei giovani hanno una connotazione ordalica. Sfuggire alla morte può indurre il ritorno ad una vita più felice. Sopravvivere ridefinisce radicalmente il senso dell’esistenza. Se il radicamento nell’esistenza non è sostenuto da un sufficiente gusto di vivere, non resta che andare a caccia del senso mettendosi in pericolo o in situazioni difficili per trovare infine i limiti che mancano e, soprattutto, sperimentare la propria legittimità personale.Il
sacrificio mette in gioco una parte per il tutto. Il giovane sacrifica una parte di sé per salvare l’essenziale. Questo vale, per esempio, per le scarnificazioni o le diverse forme di dipendenza, come la tossicodipendenza, l’anoressia. Si tratta di farsi del male per provare meno dolore, di pagare il prezzo della propria esistenza.Il
candore è la cancellazione di sé nell’annullamento dei vincoli d’identità, la volontà di non essere più se stessi, di non essere nessuno… Lo si incontra particolarmente nel vagabondaggio, nell’adesione a una setta o nella ricerca dello “sballo” attraverso l’alcol, la droga o altre sostanze. È ormai solo ricerca della totale incoscienza e non più solo di sensazioni.Le condotte a rischio caratterizzano l’alterazione del gusto di vivere di una parte della gioventù contemporanea. La sensazione di trovarsi davanti a un muro invalicabile, a un presente che non finisce mai. In mancanza di limiti di senso per poter vivere, le condotte a rischio sono dei tentativi di divincolarsi dall’impotenza per tornare a essere protagonisti della propria esistenza, anche pagandone il prezzo (logica del sacrificio). Le condotte a rischio rappresentano la ricerca di una sponda, facendosi del male, scorticandosi, andando a sbattere contro le barriere del reale, sperimentando il contraccolpo della tossicodipendenza, dell’alcolismo, dell’anoressia, della bulimia… Si tratta di fabbricare un dolore che argini provvisoriamente la sofferenza. Un dolore deliberato, dunque controllabile, si oppone a una sofferenza che divora ogni cosa al suo passaggio. All’incertezza delle relazioni, il giovane che non sta bene con se stesso preferisce il rapporto regolare con un oggetto che orienta totalmente la sua esistenza, ma che ha la sensazione di dominare come vuole e per sempre. Da cui le relazioni di attrazione verso alcuni oggetti: droga, alcol, cibo, ecc., grazie ai quali può decidere autonomamente sugli stati del proprio corpo, a costo di trasformare il suo ambiente in pura utilità e a non investire in nient’altro. All’inafferrabile di sé e del mondo oppone il concreto del corpo. Il giovane riproduce incessantemente una relazione particolare con un oggetto o la sensazione che gli procura, infine, fosse soltanto per un istante, l’impressione furtiva di appartenersi e di essere ancora ancorato al mondo.Questi comportamenti permettono di resistere. Sono forme di adeguamento a una situazione personale dolorosa. Segnalare il carattere antropologico di queste condotte, insistendo sul loro carattere provvisorio, non significa assolutamente che bisogna permettere che l’adolescente si faccia del male fisicamente. Se le condotte a rischio sono appelli alla vita, sono anche richieste di aiuto. Sollecitano un riconoscimento, un accompagnamento del giovane, una comprensione del fatto che questi comportamenti sono segno di una grande sofferenza che va ricercata a monte. Devono mobilitare le istituzioni della pubblica sanità, gli organismi di prevenzione e di sostegno all’adolescenza. Si tratta di giovani nel disagio alla ricerca di adulti che gli possano ridonare la gioia e il gusto della vita. Da cui la necessità di farsene carico in termini di accompagnamento o di psicoterapia, di presenza, di consigli, o semplicemente di amicizia. Ma il primo compito di noi adulti sta nel convincere i giovani di quanto la loro esistenza sia preziosa, e di distoglierli dai loro giochi di morte per condurli all’entusiasmante gioco del vivere.