A colloquio con padre Cesare Falletti, fondatore del monastero cistercense di Pra ’d Mill
Per salire al monastero cistercense Dominus Tecum di Pra ‘d Mill si va da Bagnolo Piemonte, a tratti su sterrato, verso i primi contrafforti alpini. A un certo punto la strada spiana un poco e ci si trova davanti a una piccola conca fra le montagne. Una sorta di anfiteatro, fra boschi e pochi coltivi, in mezzo al quale sorgono le modernissime strutture monastiche.
Il monastero è stato costruito negli anni ‘90 su un vasto terreno donato dalla serva di Dio Leletta d’Isola che fin dagli anni ‘70 desiderava sorgesse una comunità monastica sulle terre di famiglia. Un desiderio che iniziò a prendere forma con l’interessamento dei cistercensi del monastero di Sant’Onorato sull’isola di Lerins, davanti a Cannes.
La prima visita di padre Cesare Falletti, che poi diverrà il primo priore di Pra ‘d Mill, fu nel 1984. L’insediamento definitivo dei cistercensi arriva nel 1995. Ancora oggi padre Cesare, che si divide fra Pra ‘d Mill, dove da qualche anno non è più priore, e la casa cistercense di Roma dove lo chiamano doveri “istituzionali”, ha un ricordo vivo di Leletta: «Ci sono santi e mistici che già in vita attraggono tante persone che vogliono capire, che vogliono vedere e toccare la fede con mano. Leletta d’Isola era una di queste persone. Ha passato la vita nel fare direzione spirituale. Negli ultimi anni era malata e non si poteva muovere, ma davanti alla porta aveva sempre la fila di chi voleva incontrarla. Ecco, persone come lei fanno conoscere il volto di Dio, per questo ne siamo attratti. Ma conoscere è una cosa e vedere è un’altra».
Cosa ci fa un monastero di nuova fondazione in una conca fra i boschi dove sembra che lo sguardo non possa spaziare?
«Vengo dal monastero di Sant’Onorato che ha 16 secoli ed è in mezzo al mare. Lo sguardo si perde, ma il mare è molto esigente e anche la mente si può perdere. Conosco bene anche il monastero di Montvoirons delle monache di Betlemme in Savoia: ha una bellissima vista sul Monte Bianco ma dopo un po’ quel panorama ingombra, è così maestoso che riempie la mente, soffoca. Il raccoglimento per me è un’altra cosa, deve favorire l’incontro con Dio e a Pra ‘d Mill credo sia favorito».
Il salmista invoca: “mostrami Signore il tuo volto”... che significato ha per un monaco?
«È una domanda che trova risposte personali. Il volto è la presenza. Mosè ha bisogno della presenza del Signore nella sua vita per andare avanti. Per la nostra fede siamo costantemente sfidati a vivere e pensare “come se lui ci fosse”, ma non ne abbiamo esperienza. Noi ci fidiamo del fatto che lui è presente, che lui non ci abbandona. “Avevo fame e mi hai dato da mangiare. Quando l’hai fatto non mi hai visto ma ti sei comportato come se mi vedessi”».
Gesù nel nostro prossimo?
«Lo ha detto lui stesso. Ma bisogna stare attenti, non è semplicemente una sfida sociale, un dovere morale. Noi cristiani abbiamo la mania di rendere tutto morale, ma ce qualcosa in questo brano evangelico che mi ricorda che ho un incontro continuo col volto di Dio senza poterlo vedere, che sono in presenza di Dio che è il mio tutto».
L’invocazione del salmista sembra a tratti persino dolorosa, disperata...
«È una grande povertà non poter vedere il volto di Dio. Quelle invocazioni sono grida di povero... Desidero vederlo perché ho bisogno di dare del tu a qualcuno. Nella nostra vita chiediamo alle persone che incontriamo: parlami di te, fatti vedere, raccontami chi sei. È la povertà di chi ha bisogno dell’altro. Chiedere a Dio di mostrarmi il suo volto vuol dire: fatti conoscere, entra nella mia vita».
Ma lui ci dice anche “Cercate il mio volto”
«Certo: il Signore ci consiglia per il bene, in quanto cercare il suo volto è rendersi disponibili al suo ingresso nella nostra vita. Lui, da Adamo in poi, continua a dirci: cercami, fidati... Poi lo vedremo davvero solo oltre la morte, quando, ci garantisce 1Gv 3,2, “lo vedremo così come egli è”».
Siamo destinati a non vederlo fino ad allora?
«L’Emmanuele, il Dio con noi, il Verbo che si è fatto carne, è una realtà, perché Dio non ha mai negato la sua presenza. “Io sono con voi tutti i giorni” (Mt 28,20). Ma per noi questa presenza è percepita solo nell’atto di fede e l’atto di fede non è riposante. Il dire “per fortuna ho la fede” è una frase che suona strana: non ci si può riposare su questo perché la fede mi chiede di vivere con questa presenza che io non possiedo e che devo costantemente cercare. Tutta la storia di Pra ‘d Mill, per esempio, è stata un continuo dire: sì, Dio ci chiede proprio questo. Ma è servito un forte affidamento»
Tutto questo come si concilia col fatto che abbiamo bisogno di segni concreti e che quel volto vogliamo vederlo davvero?
«Chiediamo miracoli perché abbiamo bisogno di segni concreti. Ma sappiamo che non possiamo vivere solo di miracoli e spesso nemmeno li riconosciamo. Eppure se guardiamo alla nostra vita in un’ottica di fede riusciamo vedere l’intervento di Dio... quel giorno come ho fatto io che non sono capace... e quell’incontro provvidenziale? Tutto questo però non è mai evidente e indubitabile: serve sempre un atto di fede. Per cui cercare il volto di Dio come ci chiede lui stesso si colloca proprio in quello spazio che c’è fra la nostra scelta per Dio e il giorno in cui lo vedremo davvero. In quello spazio c’è la nostra vita di fede. Se non fosse così non esisterebbero i non credenti».
Una questione di libertà?
«Sì. Ma la libertà non è fare quello che si vuole. È una cosa intima. E nell’atto di fede si sente questa intimità. Il dire non me la sento di credere è un atto di libertà così come dire io credo. Ma non è un fatto morale. Non sono colpevole di dire non ce la faccio a credere. Certo che se dietro c’è un pensiero del tipo “mi fa comodo non credere”, allora ci può essere una colpa, ma anche nell’atto di fede ci può essere una forma di opportunismo, un “mi fa comodo credere”».
Fede e dubbio... Per questo Dio ha mandato suo figlio con un volto da vedere?
«Dobbiamo chiederci cosa è la fede, in generale. E la fede è saper dire: Dio è con me. La cosa basica è l’Emmanuele cioè il Dio con noi. Poi Dio un volto ce lo ha dato davvero. Ma anche qui per ammetterlo è necessario un salto di fede, perché potremmo dire: “Non sei tu il figlio del falegname?” (Mt 13,55). Dobbiamo ricordarci che la Parola di Dio trova il suo apice nel Vangelo, ma non è solo il Vangelo. È un lungo percorso che il Padre fa fare ai suoi figli. È una pedagogia, perché qualunque cosa si riceva la si riceve al modo del ricevente, come insegna la filosofia tomista. Il volto di Dio si mostra sempre più chiaro man mano che cresciamo nella fede. Una cosa è il Sinai, una cosa è il Tabor. Ma è comunque sempre necessario l’atto di fede».
Ci può essere fede se non desidero vedere il volto di Dio?
«Dietro a ogni vocazione c’è stato qualcuno che ha fatto fare quell’esperienza che fa dire: qui c’è qualcosa di vero. Questa è la testimonianza. E può essere anche in una cosa semplice come un’omelia. E ci si può interrogare se l’omelia serva per far vedere il volto di Dio o per far star buono il gregge. Se non si fa sentire il gusto di cercare il volto di Dio è inutile parlare di comandamenti o di fede. Ma è certamente più facile dire quel che si deve o non si deve fare piuttosto che mostrare che dietro alla Parola del Vangelo c’è un Dio che vuole mostrarci il suo volto».
Ce n’è di strada!
«Certamente. Ma anche qui per farla occorre che qualcuno ci faccia sentire il gusto del cammino e quel grido che è in noi, che nasce dal bisogno di vedere Dio. La porta chiusa del Paradiso terrestre è proprio nel fatto che non lo vediamo più faccia a faccia. Ci è rimasto questo desiderio dentro. E Lui ci chiede di cercare il suo volto come risposta al nostro bisogno primordiale. “Qual è l’uomo che non cerca la felicità” si chiede il Salmo 33. San Benedetto ci costruisce la Regola intorno, consapevole che la ricerca del Volto è la strada dell’essere se stessi. Per questo il sentirsene bisognosi la chiamo la nostra povertà. Una povertà che va vissuta se vogliamo crescere nella felicità».
«La cacciata ci impedisce di vedere Dio “faccia a faccia” ma questo bisogno ci è rimasto dentro: una povertà che ha bisogno di essere nutrita». Il fondatore del monastero cistercense di Pra ‘d Mill, padre Falletti