Lo sguardo è quello di sempre: dolce e fiero, costantemente rivolto in avanti, anche se da un po’ di tempo si trova a guardare indietro, nel suo cassettino personale dei ricordi. Giuseppe Roncucci ha il suo personalissimo Marco Pantani nel cuore e nella mente. E non esita a raccontarlo, come in una fiaba…«Mi basta socchiudere gli occhi, e mi sembra di vederlo ancora lì: in testa a tutti – ci dice –. Era un artista. Senza regole, con l’istinto di chi è nato predestinato per andare in bicicletta. Su quelle due ruote era qualcosa di unico. Piccolino, esile ma tosto, tostissimo come pochi. Quando scattava in salita era una gioia per gli occhi».Giuseppe Roncucci ha 78 anni compiuti, essendo nato il 12 dicembre del 1935. Ha accompagnato il giovane Pantani al professionismo. L’ha fatto crescere, al pari di tanti buoni corridori (da Amadori a Cassani) che ha visto passare davanti a suoi occhi dal 1969 al 2000, ma nessuno è stato come Marco. «Lui aveva davvero una marcia in più. Anche caratterialmente era molto particolare – spiega Roncucci che è stato uno dei tecnici giovanili più apprezzati e preparati –. Marco sembrava quasi distaccato, poco dentro alle cose, invece poi quando lo portavi alle corse e si metteva in sella alla sua bicicletta ti inventava cose mai viste. Aveva coraggio e incoscienza. Attaccava. Attaccava sempre. Si divertiva e sapeva perfettamente che più si divertiva e più divertiva chi lo andava a vedere».14 febbraio 2014: dieci anni dopo. Dopo dieci anni l’Italia dello sport e non solo s’interroga su quel ragazzo dalla crapa pelata pieno di contraddizioni, che ha esaltato le folle ma le ha anche lasciate ammutolite e sgomenti nel giorno della sua morte.
Oggi lo ricordiamo. Marco cosa ha lasciato di buono?«Marco ha lasciato un grande vuoto nel cuore di chi gli ha voluto bene e in quanti con lui si sono divertiti – dice Roncucci –. Perché piaceva così tanto? Perché Marco era qualcosa di diverso e la gente l’aveva capito. Piaceva per il suo modo di andare in bicicletta. Piaceva per la sua sfrontatezza, perché rendeva elementare un gesto assolutamente complesso. Gli sportivi di mezzo mondo avevano capito che se la montagna si avvicinava, Pantani era pronto a scattare. Come sul Galibier, in quella gelida giornata di fine luglio del’98. Mi aveva confidato: «Se voglio vincere il Tour domani devo fare l’impresa...». L’ha fatta. Nuvole basse, pioggia mista a neve, temperatura invernale. Pantani scatta in faccia a tutti. Senza tattiche precise. È lì davanti e davanti a tutti scatta: venitemi a prendere se ne siete capaci. Per un tifoso è il massimo che si possa sperare di vedere».
Ma oggi cosa resta di Pantani, oltre al vuoto?«Restano tanti ragazzini che corrono con il suo nome impresso sulla maglia. La “Pantani Corse” ha dieci anni: è nata quasi subito – ricorda Roncucci con i suoi occhi profondi e lucidi –. Mamma Tonina e papà Paolo vollero subito favorire questa cosa con la Fondazione di Marco: mettere in bicicletta dei ragazzini. Solo giovanissimi, dai 6 ai 12 anni. Una squadretta a Cesenatico, un’altra a Forlì. Io do una mano a Cesenatico assieme a Magda Notariello, mentre a Forlì operano Piero Coletti e Mira Cangini, oltre a Luca Montaguti (fratello di Matteo, prof alla Ag2r,
ndr) che è il presidente della “Pantani Corse”. No, io non sono niente. Sono solo un nonno che ha fatto il tesserino da direttore sportivo e mi diletto a stare con i bimbi: è bellissimo. Abbiamo ragazzini che sono uno spasso, come Enea Sambinello: ha solo 7 anni, ma l’anno scorso su 16 gare ne ha vinte 15. Sa tutto di Marco, e vuole sapere di tutto. È talmente forte che ho dovuto anche trattenerlo un po’. Ad un certo punto non l’ho fatto più correre: vincere tanto non fa bene. Bisogna anche saper aspettare. Io oggi ho un solo grande compito: insegnare a divertirsi in bicicletta. Raccontare a loro Pantani. E avere pazienza, in un mondo dove volano via veloci anche dieci anni. Troppo veloci».