giovedì 23 ottobre 2014
​Sono i perdenti a mostrare l’altra faccia del pugilato, collezionisti di ko ma indispensabili per allestire le riunioni Li chiamano Journeymen e trasudano sofferenza, sacrificio e orgoglio.
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Perdenti nati. Mai un briciolo di gloria, solo sconfitte, una dietro l’altra, viaggiando sempre, basta che ci sia un ring ad accoglierli. Eroi, a modo loro. Perché vanno avanti, malgrado tutto. Carriere infinite, piene di sconfitte. E vite da girovaghi del ring, che aiutano gli organizzatori a riempire riunioni e catturano l’attenzione di chi guarda all’altra faccia del pugilato, lontana dalle luci della ribalta e dalle montagne di quattrini. Mark Turley, un esperto del campo. Ci ha appena scritto un libro, raccogliendo un’infinità di storie: “Journeymen, the other side of the boxing business, a new perspective on the noble art”, il titolo, in inglese, in attesa di una tradizione italiana. Journeymen, il loro nome in gergo. Perché non fanno altro che muoversi, non si fanno problemi, non si pongono interrogativi. L’importante è combattere, ovunque e contro chiunque. Anche se c’è da sobbarcarsi migliaia di chilometri per una borsa che più magra non si può, anche se c’è da prendere cazzotti sicuri da chi è ben più forte e preparato, anche se non si ha neppure il tempo di recuperare da un ko subìto che già il dovere del prossimo impegno chiama. I journeymen puntano sulla quantità, perché sulla qualità non possono fare affidamento. La carriera è breve, bisogna farla fruttare al massimo. «I promoter sono gli allevatori, noi siamo il loro bestiame», per dirla con Michael Murray, britannico, journeyman per una vita, prima di raccontare le sue gesta al contrario in un libro, neanche a dirlo intitolato “The Journeyman”. Non un granché con i pugni, molto meglio con le parole. Tante pagine, pregne di poesie, tanto da valergli menzioni in più di un premio letterario. Perché sono storie che trasudano sofferenza, sacrificio, orgoglio, forza di volontà, quelle dei perdenti della boxe. Peter Buckley, inglese pure lui, quando decise di scendere dal ring per sempre, si guadagnò la prima pagine del Times, che nessuno si sarebbe sognato di riservargli per le sue prestazioni da pugile di scarsa qualità. Peter Buckley, detto il Professore, l’emblema del perdente, l’eroe eponimo della sconfitta. Un lungo viaggio, il suo. Fin dentro la storia del pugilato, alfine centrata, ma dalla porta di servizio. Un fuoriclasse al contrario. Le sconfitte come regola, i successi come la classica eccezione che la confermano. Infine, per raggiunti limiti d’età, l’inevitabile uscita di scena: sicuramente triste, per nulla solitaria, naturalmente finale. L’eloquente record da una parte, il rispetto guadagnato dall’altra. Il primo a stendere un pietoso velo sulle qualità tecniche, i secondi a suggellarne l’impareggiabile storia da proletario del ring. Numeri incredibili, da autentico brocco: 291 presenze sul quadrato, ben 249 chiuse col timbro dello sconfitto appiccicato addosso, a fronte di una manciata di vittorie e qualche pareggio. Lui rispondeva sempre: presente. Come quella volta, la più incredibile, quando lo squillo del telefono lo beccò nel bel mezzo di un profondo sonno, retaggio di una colossale sbronza: «Ero tornato a casa alle 5 di mattina, ciondolante dopo una nottata in un club. Il mio manager mi chiamò alle 11, il match era per la sera stessa, a Nottingham. Nessun dubbio: accettai». È la regola dei perdenti. Pure Brad Rone, americano, rispose presente, quando non avrebbe dovuto. Stava piangendo sua madre Thelma, appena passata a miglior vita, stroncata da un infarto fulminante. Ma fu allora che squillò il telefono: qualcuno gli proponeva un match per il giorno seguente, una sfida contro Billy Zumbrun. Il buon Brad, gigante di colore dal record degno di un perdente abituale, ci pensò su solo un attimo. Poi rispose di sì, quel match lui l’avrebbe fatto. Perché in casa di soldi non è che ve ne fossero, 800 dollari potevano far comodo, proprio i quat- trini necessari a garantire un adeguato  funerale all’amata mamma. Prese armi e bagagli,  lasciò Las Vegas, partì per Cedar City. Certo che lui aveva ben altro per la testa, tanto da sembrare svagato, distratto. Prese un duro colpo, stramazzò al tappeto, perse conoscenza. Il medico gli praticò il massaggio cardiaco, poi la corsa in ospedale. Morì, per infarto, come sua madre.  Una tragedia, a chiudere una carriera da perdente. Uno dei tanti, come centinaia di altri. Qualcuno tempo fa s’era preso la briga di catalogare il peggio del peggio. Una sorta di archivio storico telematico, con tanto di record e notizie varie su chi nel film della boxe non ha fatto altro che la comparsa. Li avevano messi insieme nella cosiddetta Hall of Shame, l’esatto contrario della Hall of Fame. Storie improbabili, nomi sconosciuti, se non a chi s’è dedicato al lato oscuro della boxe: Eric Crumble Simmie Black, Verdell Smith, Jerry e Reggie Strickland, e altri, tanti altri, una marea. Autentiche comparse, il cui precursore è Joe Grim, alias Saverio Giannone, pugile dell’inizio del Ventesimo secolo, nato ad Avellino, trapiantato negli States, famoso per la sua somiglianza con Jean Paul Belmondo più che per le sue qualità pugilistiche. Una volta finì 20 volte al tappeto in un match con il grande Bob Fitzsimmons, rialzandosi sempre. Perché lui perdeva, ma mai per ko. Tranne che nell’ultimo match: tale fu la delusione che decise di appendere i guantoni al chiodo.
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