martedì 27 gennaio 2015
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Da quando le case discografiche hanno abdicato allo scoprire nuovi artisti delegando il ruolo ai talent show, il livello delle nuove produzioni discografiche si è drasticamente abbassato. Reggono, lo dimostrano i numeri, i vecchi leoni: che poi sono gli unici a proporre musica valida, perché dai talent non ne esce. Che fine hanno fatto però i produttori? Quelli indipendenti, quelli che fuori dalle major o lavorando malgrado le loro esigenze di marketing hanno nel tempo lanciato gente tipo Paoli (Nanni Ricordi), Pooh (Giancarlo Lucariello), De Gregori (Ennio Me-lis), Rino Gaetano ( Vincenzo Micocci), Ron (Roberto Dané), Ligabue (Angelo Carrara)? La curiosità è che due di loro hanno deciso di passare dall’altra parte della barricata proponendosi come artisti. Ovviamente prodotti da sé. E non si tratta di nomi di poco conto: Fabrizio Sotti ha lavorato con Zucchero, Jennifer Lopez, Shaggy, Gipsy Kings; Piero Fabrizi ha prodotto Fiorella Mannoia di cui è stato anche autore (e marito) ma ha anche collaborato con Oxa, Rava, Fossati, Caetano Veloso. Ora puntano su sé stessi. Sotti con un magnifico e raffinatissimo album (A few possibilities) in cui rilegge con classe spiazzante Pink Floyd e Bob Marley, per la prima volta chiamando lui gli artisti (Zucchero stesso, Ice T, Isabella Lundgren, Mino Cinelu) a collaborare con la sua chitarra e non venendo chiamato a produrre loro. E Fabrizi risponde con un album (Primula) più radiogenico, per quanto sempre superiore alla media dei (presunti) nuovi talenti, nel quale – anch’egli da chitarrista – mescola i mondi che nel tempo ha incontrato: Balcani, Brasile, rock, cantautorato. Anch’egli con cover (dei Led Zeppelin) ed ospiti: Moreno Veloso, Chico César, Mauro Pagani, Tony Levin. Ma che senso ha durante la crisi fare gli esordienti, o quasi? Risponde Sotti: «Fare un disco è un’esigenza artistica, e noi siamo musicisti prima di tutto. Poi è solo con un progetto fisico sul mercato che puoi lavorare. Guadagni poco, rispetto a ieri: ma riesci a trovare nuovi contatti e sviluppare l’attività. Ovviamente, almeno nel mio caso, puntando su mercato digitale e vendita diretta ai concerti: in modo che si riduca il budget per la distribuzione, visto che sono meno noto di altri». Però ciò non va a scapito della qualità, attenzione, e nel caso di Sotti è palese. Lui dice: «Ho guardato agli amanti della musica oltre i generi perché nella globalizzazione l’unica arma per farsi ascoltare e comprare è comunicare ciò che senti». E se gli si chiede perché non usare questa tecnica con esordienti veri, magari il futuro Zucchero o la Mannoia del 2020, ribatte con parole disarmanti: «La discografia si è autodistrutta ignorando i nuovi media. Oggi iTunes è la società che più guadagna dalla musica e non è azienda musicale. Per questo i discografici sono costretti a ricorrere ai talent. Non hanno soldi! L’unica è l’indipendenza, nel senso che siamo tutti indipendenti. Io come i nomi notissimi. Tutti ci autoproduciamo, facendo la differenza, quando accade, con la nostra musica e il modo di proporla. Con le major non ha senso firmare, se va bene distribuiscono i dischi». E così Sotti produce se stesso per arrivare a farsi conoscere da futuri clienti, leggasi nuovi talenti da produrre; e Fabrizi si mette in gioco direttamente con la stessa mira: in più l’intelligenza di sostenere col suo cd “Il sorriso dei miei bimbi”, Onlus per educare i piccoli della più grande favela del Sudamerica.  Sono dischi belli quanto strani, insomma, quelli di Sotti e Fabrizi: finti esordienti con alle spalle lustri di storia. Ma se funziona, da questi dischi potrebbero ricavare i fondi per restituirsi al mercato come i Melis, Lucariello, Ricordi, Micocci del futuro. Loro sanno fare musica (si sente) e confezionarla (si vede): e la mancanza di nuove leve nel settore li ha spinti a prenderne il posto. Fare loro gli artisti oggi, per dare chance a quelli di domani.

(Sotto: Fabrizio Scotti)

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