Nei tempi densi di incognite in Medio Oriente è di grande valore l’attribuzione del Premio Bresson della Fondazione Ente dello Spettacolo all’israeliano Amos Gitai. È stato monsignor Claudio Maria Celli, a capo del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, a consegnare con queste parole, lunedì mattina a Venezia, il riconoscimento: «Gitai ha testimoniato nei suoi film ciò che l’uomo vive nella propria carne quando è in esilio o soffre la guerra, tutte realtà che trasformano la quotidianità. Credo che il premio a Gitai abbia un significato ancora più profondo: viene da una regione che vive continue, tragiche difficoltà». Don Ivan Maffeis, neo presidente dell’Ente, aggiunge: «Abbiamo voluto riconoscere la sua ricerca della possibilità di tracciare il sentire di convivenza e di pace anche in popoli che, tante volte, per storia o per pregiudizi, sono uno contro l’altro. Qui c’è la testimonianza di un artista che ha cercato di tradurre l’appello di papa Francesco: globalizzare la solidarietà e il dialogo in un mondo che, tante volte, ha globalizzato solo l’indifferenza».
La soddisfazione di Amos Gitai nell’aver ricevuto il Premio Bresson è racchiusa tutta in una sola parola: semplicità. Perché per lui, israeliano di Haifa, il grande cinema è fatto di elementi molto semplici. «Bresson andava all’essenza di tutto: dell’amore, dell’esistenza. Il cinema e l’arte in generale, specialmente in questo periodo in cui il mondo soffre e dilaga la povertà, devono parlare con parole le più semplici possibili. Solo così sono in grado di farsi comprendere». Gitai è riconosciuto tra i registi più autorevoli, consacrato da numerosi premi, quattro volte in concorso a Cannes e cinque a Venezia, l’ultima oggi con Ana Arabia.La sua è una serie di opere ricche di sapienza, di poesia e di tensione spirituale. Che si fondano sempre sulla forza delle idee.Credo fermamente nel loro potere. Non bisogna avere paura delle idee. Non sono mai qualcosa di debole. Possono cambiare il mondo. Al mio popolo faccio spesso questa domanda: se non avessimo avuto la forza delle nostre idee, come saremmo sopravvissuti alla storia? Non certo impugnando delle armi.Eppure se ne sente sempre più spesso il rumore.Dobbiamo essere capaci di progettare, in un momento così buio, un’idea di coesistenza. Il nostro mondo non può essere governato solo dalle bombe, dal denaro, dalla violenza e dalla brutalità. Dobbiamo avere e comunicare un’idea ben precisa di umanità. Dobbiamo continuare a cercarci e guardarci per capire come vivere insieme su questo piccolo pezzetto di terra. Trovare un compromesso, vivere rispettando le nostre differenze, altrimenti, dall’oceano di odio in cui siamo, precipiteremo in uno di sangue. Su questo punto io non posso negoziare alcun’altra soluzione.Descrive «Ana Arabia» come un film rischioso.In tutti i sensi, perfetto per una Mostra rischiosa come quella voluta da Barbera. Parla di coesistenza tra israeliani e palestinesi. Di come accettare questa sfida. Siamo aggrediti da minacce continue, ci sono persone che rifiutano tutto, ma noi dobbiamo presentare delle opzioni. Possiamo anche essere in disaccordo, non siamo perfetti, non siamo degli angeli, ma è necessario non interrompere la continuità dei rapporti, del dialogo. Per questo ho girato il film come un lunghissimo piano sequenza della durata di 81 minuti e con soli sette personaggi: non c’è mai interruzione nelle immagini che ritraggono un momento nella vita di una piccola comunità di reietti, ebrei e arabi, che vivono insieme in un angolo dimenticato da tutti al confine tra Jaffa e Bat Yam, in Israele. Per dire che in quel luogo fragile esiste la possibilità di convivere. Una metafora che dal cinema lambisce la politica: il destino di due popoli in questa terra non potrà mai essere spezzato. Siamo obbligati alla continuità. Domanda che ci si pone più che mai in questi giorni: cosa fare per risolvere la crisi della Siria?Sono pieno di dubbi, come tutti. Assistiamo muti a un massacro, ma sappiamo bene che gli interventi militari non risolvono le crisi, le accentuano. È bene continuare a farci domande, superando quelle manipolazioni che ci arrivano dai media, che semplificano tutto. Non possiamo che andare oltre le armi e oltre l’odio.