Lo storico tedesco Jürgen Osterhammel
Jürgen Osterhammel è il primo ad ammetterlo: la storia globale sta attraversando un momento di eccezionale vitalità. «Ma proprio per questo l’occasione non va sprecata – aggiunge –. Bisogna uscire dall’equivoco che porterebbe a equiparare questi studi a una sorta di nuova disciplina settoriale. In realtà, per quanto si sforzi, nessuno riuscirà mai a specializzarsi in storia universale. La ricerca approfondita su argomenti specifici rimane, a cambiare è semmai la visione d’insieme, che con il passare del tempo sta diventando sempre più interconnessa».
È il metodo che Osterhammel – nato nel 1952 a Wipperfürth, fino a pochi mesi professore di Storia moderna e contemporanea all’Università di Costanza e membro di importanti istituzioni accademiche – ha sviluppato in una serie di libri noti solo in parte nel nostro Paese: all’inizio degli anni Novanta Einaudi aveva pubblicato la sua Storia della Cina moderna, mentre la Storia della globalizzazione scritta in collaborazione con Niels P. Petersson è uscita dal Mulino nel 2005. Manca ancora all’appello, tra l’altro, l’imponente «storia globale del XIX secolo» apparsa di recente anche in lingua inglese con il titolo The Transformation of the World. Un’opera documentatissima e avvincente, che è all’origine del premio Balzan per la storia globale, attribuito ieri a Osterhammel durante la cerimonia svoltasi a Roma presso l’Accademia dei Lincei.
Professore, oggi uno storico dev’essere anche un narratore?
«Dipende da quello che intendiamo per racconto – risponde lo studioso tedesco –. Fino a non molto tempo fa, la fine delle cosiddette 'grandi narrazioni' era considerato un assioma indiscutibile del postmoderno. Ma se ci guardiamo intorno, non possiamo fare a meno di notare come in molte parti del mondo il sovranismo politico cerchi legittimazione mediante l’appello a strutture narrative molto ambiziose. Questo, per uno storico, è un campo molto insidioso. Specie in un frangente come l’attuale, il compito della ricerca non consiste nel proporre sintesi magniloquenti, ma nell’indagare con precisione su avvenimenti ben circostanziati. Il risultato può essere descritto come un mosaico di piccole narrazioni, il cui significato deriva dalle relazioni che riusciamo a stabilire tra l’una e l’altra».
La globalità, dunque, deriva dalla prospettiva?
«Sì, e la prospettiva si chiarisce attraverso la pratica. Ora come ora, non c’è ricerca che non si sviluppi su scala globale. Anche in ambito più propriamente scientifico, le reti di studiosi che lavorano sui medesimi problemi finiscono a loro volta per costituire una rete più ampia, interdisciplinare nel senso più profondo del termine. La questione ambientale, per esempio, non si può affrontare se non attraverso questa strumentazione plurale. Della quale, ci tengo a sottolinearlo, fa ormai parte anche la storia globale».
È un’impostazione che guarda molto al presente, mi pare.
«Anche qui occorre evitare le scorciatoie. Più che a spiegare l’attualità attraverso un eventuale rapporto di causa- effetto, la storia globale serve a comprendere di quanto passato abbiamo bisogno per affrontare in modo critico il presente. In discussione non ci sono solamente i processi di continuità, ma anche, e in maniera ancor più illuminante, gli elementi di discontinuità».
A che cosa si riferisce?
«Prendiamo il XIX secolo, che ormai gli storici considerano come un "secolo lungo2, i cui effetti si riverberano fino a oggi. Ma in che senso? Una prima risposta, abbastanza ovvia, si basa su quello che abbiamo ereditato dall’Ottocento in termini di tecnologia o di assetti geopolitici. Lo Stato-nazione, lo sappiamo, è un’invenzione dell’Ottocento, così come lo sono la ferrovia, la bicicletta e il motore a scoppio. Tutto vero e addirittura incontestabile. Però c’è dell’altro. Dal XIX secolo, infatti, provengono anche la maggior parte delle nostre categorie di pensiero. Liberalismo, conservatorismo e socialismo nascono nell’Ottocento e, in fondo, costituiscono ancora la premessa delle nostre riflessioni. Ed è proprio a questo punto che entra in gioco la discontinuità. Anche la distinzione fra destra e sinistra è un portato dell’Ottocento, ma possiamo ancora servircene nel contesto attuale?».
Mi scusi, ma tocca a lei rispondere.
«La mia impressione è che sulla scena internazionale siano sempre più numerosi i fenomeni ai quali le categorie del passato non possono essere applicate. Un caso di scuola è rappresentato da Vladimir Putin, un ex agente del Kgb che fa dell’anticomunismo il suo vessillo e nello stesso tempo ripropone il culto staliniano della personalità. Ma anche la Cina, con il suo capitalismo posto sotto il controllo dello Stato, offre un quadro pressoché impossibile da decifrare con il ricorso ai parametri tradizionali».
Ma il riemergere dei nazionalismi non è un rigurgito ottocentesco?
«In modo più superficiale di quanto normalmente si pensi. Quello che si sta manifestando nei nostri anni è un nazionalismo abbastanza paradossale, che fa leva sulla debolezza più che sulla forza. Non si tratta di espandere il proprio territorio a discapito dei Paesi confinanti, come avveniva in passato, ma al contrario di esercitare un controllo sempre maggiore sulle frontiere già esistenti, rinchiudendosi come in una fortezza. Perfino il presidente Trump predilige questa retorica vittimista, per cui gli Stati Uniti sarebbero una nazione sotto attacco, costretta a difendersi da invasioni di volta in volta differenti: le carovane di migranti, gli attacchi commerciali... In Europa succede lo stesso, con una variante degna di nota».
Quale?
«I vari leader sovranisti, da Marine Le Pen in Francia a Victor Orbán in Ungheria passando per Matteo Salvini in Italia, tendono a stabilire rapporti di solidarietà reciproca, che vengono a fornire l’immagine di una destra rassicurante, direi non belligerante. Ma dal punto di vista della storia globale l’ipotesi di un nazionalismo pacifico risulta piuttosto improbabile. Il rischio di un ritorno all’aggressività è tutt’altro che remoto. Su questo occorre vigilare».