venerdì 12 luglio 2013
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La comunione dei santi
«Non è bene per noi dimorare qui, dove tutte le membra soffrono quando soffre un membro, e quando uno è glorificato tutti si rallegrano? Quando dunque io soffro, non sono solo a soffrire; con me soffre Cristo e soffrono tutti i cristiani; dice infatti il Signore: "Chi tocca voi, tocca la pupilla del mio occhio". Il mio peso, quindi, altri lo portano, la loro forza è la mia. La fede della Chiesa viene in soccorso della mia angoscia, la castità altrui mi sorregge nelle tentazioni della mia lascivia, gli altrui digiuni tornano a mio vantaggio, un altro si prende cura di me nella preghiera. E così posso gloriarmi dei beni altrui come dei miei propri ... Anche se non lo si sente, ciò avviene in verità; e chi non finisce col sentirlo? Se tu non disperi, non perdi la pazienza, a che cosa lo devi? Alla tua virtù? No di certo; bensì alla comunione dei santi. Credere che la Chiesa è santa che altro vuol dire se non che essa forma la comunione dei santi? Con i buoni così come con i cattivi: tutto appartiene a tutti, come è significato sensibilmente dal sacramento dell'altare nel pane e nel vino: vi siamo designati dall'apostolo come un solo corpo, un solo pane, una sola bevanda. Quel che soffre un altro, lo soffro e sopporto io; quel che gli capita di buono, capita a me. Lo dice anche Cristo, e avviene a lui quel che viene fatto al minimo dei suoi... Anche a noi, dunque, non resta altro che pregare che ci siano aperti gli occhi e scorgiamo tutta intorno a noi la Chiesa, con gli occhi della fede, sì che non avremo più nulla da temere». Così scriveva Martin Lutero nel 1520 (Tessaradecas, 1520. Brani tratti da H. U. von Bathasar, Cattolico, Milano 1976, 75-81, 89-95). Tra i membri della Chiesa si produce continuamente uno scambio invisibile, una reciprocità, una reversibilità dei beni degli uni e degli altri: è la vita di carità che circola come un sangue spirituale che salva, feconda ed arricchisce. Il più piccolo dei nostri atti compiuto nella carità ridonda in profitto per tutti, nella solidarietà con tutti gli uomini, vivi o defunti, allo stesso modo che ogni peccato nuoce a questa comunione (cf CCC 949-953). E il Concilio Vaticano II insegna che «nell'edificazione del corpo di Cristo vige una varietà di membra e di funzioni. Uno solo è lo Spirito che distribuisce i suoi vari doni per l'utilità della Chiesa, a misura della sua ricchezza e delle necessità dei ministeri... Il medesimo Spirito unifica il corpo con la sua presenza, con la sua forza e con la connessione interna delle membra; produce la carità tra i fedeli e li sprona a viverla. Cosicché se un membro soffre, tutti soffrono insieme con lui; e se un membro viene onorato, ne gioiscono insieme anche gli altri» (LG 7; cf CCC 790-791). È la cosiddetta “comunione dei santi”, un profondo mistero spirituale che sarà manifestato nella sua pienezza soltanto nell’ultimo giorno, quando saremo simili a Dio, perché lo vedremo così come egli è (cf 1Gv 3, 2). L’espressione designa la solidarietà intima di tutti i credenti, quelli sulla terra e quelli nel cielo, invisibile ma non per questo meno vera ed efficace: ciò che ogni membro compie di bene e sopporta di sofferenze contribuisce non soltanto alla sua salvezza personale, ma può concorrere anche alla salvezza di coloro ai quali è legato. Non siamo degli individui isolati. Apparteniamo ad un Corpo, nel quale tutti professano la medesima fede, sono guidati dallo stesso Capo e sono vivificati dal medesimo Spirito. Nello stesso modo in cui è possibile fare un trapianto di pelle da una parte del corpo ad un’altra e si può operare una trasfusione di sangue da un individuo ad un altro, così, nell’organismo misterioso della Chiesa è possibile applicare ad altri delle preghiere e trasferire ad altri dei meriti e dei sacrifici. «Non può l'occhio dire alla mano: "Non ho bisogno di te"; oppure la testa ai piedi: "Non ho bisogno di voi"», ricorda san Paolo ai cristiani di Corinto (1Cor 12,21). Al contrario, i membri del corpo che sembrano i più fragili risultano essere spesso i più necessari. Mi piace riprendere qui, come monito e quasi grido di allarme, quanto Papa Francesco ha detto nell’omelia pronunciata a Lampedusa lunedì scorso: «Abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell'atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell'altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo "poverino", e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l'illusione del futile, del provvisorio, che porta all'indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell'indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell'indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell'altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!» (8 luglio 2013). Scrivendo ai cristiani di Roma, san Paolo ricorda che «nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso» (Rm 14,7; cf 1Cor 12,26-27). In questo contesto di mistero di comunione e di solidarietà si colloca e si giustifica il precetto ecclesiastico che stiamo esaminando, l’ultimo nell’elenco delle opere di misericordia spirituale raccomandate dalla Chiesa al popolo dei credenti: pregare Dio per i vivi e per i morti. 
Pregare Dio Ma che cosa è la preghiera? «Per me la preghiera è uno slancio del cuore, un semplice sguardo gettato verso il cielo, un grido di gratitudine e di amore nella prova come nella gioia», dice santa Teresa di Gesù Bambino (Manoscritti autobiografici, C 25r., citato in CCC IV, sez. I). E il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: «Che lo sappiamo o no, la preghiera è l'incontro della sete di Dio con la nostra sete. Dio ha sete che noi abbiamo sete di lui... La preghiera cristiana è una relazione di alleanza tra Dio e l'uomo» (cf 2559-2565). Quando gli parla, che cosa dice il credente a Dio? Qual è il primo, istintivo atteggiamento che assume? È la domanda del povero: quando l’uomo prende coscienza della sua radicale povertà si volge spontaneamente a Dio; lo vede come sorgente di ogni bene; relazionarsi con Lui diventa un bisogno e una gioia. Non saremo dunque sorpresi che nel Vangelo sia questa la forma di preghiera che ha maggior rilievo. Infatti, la preghiera di cui parla Gesù è quasi sempre di domanda. E anche quando, richiesto dai discepoli, propone una formula, un modulo esemplare, ci offre il “Padre nostro”, che è una serie di domande (cf Mt 6,9-13). Questa, però, è anche la forma di preghiera che la mentalità moderna maggiormente contesta. L’uomo, che vuole tenere nelle sue mani il proprio destino, vede nella domanda a Dio il rischio di evadere dalle proprie responsabilità: invece di pregare per la pace, non è meglio impegnarsi per realizzarla? Questo continuo guardare in alto e attendere tutto da Dio, non rischia di condurre al disimpegno e all’infantilismo? Bertolt Brecht ha incarnato questa obiezione in una scena dell’ultima guerra: la città di Halle è già addormentata. Solo una famiglia di contadini veglia ancora. Quando improvvisamente avvertono che le truppe nemiche si stanno avvicinando, tutti si mettono a pregare. In casa c’è una sordomuta, Kattrin, che ha capito tutto come gli altri, ma ha una reazione diversa. Prende un arnese, lo batte a mo’ di tamburo e dà il segnale: la città si sveglia e si mette in salvo. Il significato dell’apologo è trasparente: è il legittimo rifiuto di una preghiera che diventi un rifugio per sfuggire alle proprie responsabilità. Invece della medaglia di San Cristoforo sull’automobile, è meglio bere di meno prima di prendere il volante e poi evitare sorpassi pericolosi; invece di accendere la candela prima di un esame, è meglio studiare con serietà a tempo opportuno. In realtà, preghiera e impegno non si escludono a vicenda, ma piuttosto vanno insieme. Sant’Ignazio di Loyola diceva: «Prega come se tutto dipendesse da Dio e impegnati come se tutto dipendesse da te» (cf CCC 2834). Il punto di contatto tra le due azioni, di Dio e dell’uomo, è misterioso, ma la fede ci dà la certezza che la grazia lavora nel cuore di chi prega, e lo trasforma. Dopo la preghiera non sono più quello di prima, perché mi sono messo dalla parte di Dio. Se prego per la pace, Dio mi dà lucidità, coraggio e forza per diventare “pacifico”, cioè costruttore di pace. Molti immaginano un Dio lontano, che vive in un mondo remoto, e che solo in qualche momento si affaccia dal cielo per vedere che cosa accade quaggiù. In tal caso ognuno di noi sarebbe lasciato in balia degli eventi. Avrebbero ragione gli esistenzialisti a dire che l’uomo è come un fuscello sbattuto qua e là dal vento del destino. Nella Bibbia troviamo invece affermata questa certezza: «Nelle tue mani è la mia vita» (Sal 16,5). E ancora: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato» (Is 49,15-16). Sono tenuto stretto da Dio, come un uccellino nel caldo della mano. È la mano di un Padre che mi ama, che non solo si occupa di me, ma per me ha pensato e realizzato tutto un disegno di salvezza. Non è «per noi uomini e per la nostra salvezza» che Cristo è disceso dal cielo? Il Padre ci ha dato il Figlio, e con lui ci ha dato tutto: «Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?», esclama san Paolo (cf Rom 8,31-32). E Ireneo di Lione scrive: «In principio Dio plasmò Adamo non perché avesse bisogno dell'uomo, ma per avere qualcuno su cui effondere i suoi benefici (Adv. Hær., Lib. IV, 13, 4-14, 1). L’uomo è un vaso vuoto che attende di essere ricolmato dalla bontà di Dio» (Ib., 11, 1-2). Dio è l’architetto sapiente della mia vita. Non posso fare io i miei piani, agire di conseguenza, e poi pretendere che Dio venga a fare il manovale nella costruzione. La costruzione la facciamo insieme, in “collaborazione”. Bisogna prendere coscienza del capovolgimento di prospettiva che il cristianesimo opera rispetto alla preghiera pagana: il pagano prega per conquistare Dio, per catturarne il favore; siamo sulla linea del magico. La moltiplicazione delle formule è considerata un mezzo efficace per penetrare nell’area del divino e appropriarsi dei poteri di Dio, per convincerlo e tirarlo dalla mia parte. Per il cristiano è tutto il contrario: non ho bisogno di convincere Dio, perché è già dalla mia parte, dalla parte del mio bene. Sono io che ho bisogno di convincermi e di mettermi dalla parte di Dio; non domando a Dio di cambiare la sua volontà per fare la mia, ma chiedo che la sua volontà si compia in me e negli altri; non prego per convertire Dio, ma per convertire gli altri, e me stesso con loro. 
La preghiera di intercessione La preghiera per gli altri, vivi o defunti, viene chiamata intercessione. In latino, il verbo intercedere significa perorare la causa di qualcuno, camminare nel mezzo, pronto ad aiutare ciascuna delle due parti o ad interporsi in favore di una di esse. Nell’intercessione prendiamo su di noi i pesi di coloro per i quali preghiamo: è una preghiera che fa riferimento al progetto di Dio e permette di partecipare alla sua opera di salvezza, entrando in una specie di “partenariato” con Lui. Il Beato Giovanni Paolo II scriveva: «Dio ha affidato agli uomini la loro stessa salvezza... Ha affidato a ciascuno i singoli e l’insieme degli esseri umani. Ha affidato a ciascuno tutti e a tutti ciascuno». Oggetto della preghiera del Papa - diceva - sono «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi» (cf Varcare la soglia della speranza, Milano 1994, pp. 21. 24). Ecco ciò che costituisce il cuore dell’intercessione, che si configura finalmente come un atto d’amore. È come quando con una lente si ingrandisce un passo preciso di un testo e si vede più chiaramente la parola o la frase; o come quando, con un binocolo o ancora una lente, si concentrano i raggi del sole su un foglio di carta che progressivamente si scurisce, si scalda ed inizia a bruciare. Possiamo dire che con la preghiera di intercessione concentriamo la potenza di Dio su persone e situazioni. Tornando indietro nella vicenda salvifica, viene alla mente l’intercessione di Abramo (cf Gen 18,17-33), che non esita ad interporsi tra l’ira di Dio e le città peccatrici di Sodoma e Gomorra. Sembra un mercanteggio della misericordia. Il patriarca domanda la loro salvezza grazie a cinquanta giusti, poi scende gradualmente fino a dieci. Non è la pretesa assurda di influenzare Dio, ma piuttosto lo sforzo ardito e coraggioso di entrare nell’orbita della sua misericordia. Tra gli oranti dell’Antico Testamento eccelle Mosè, che si tiene sulla breccia dopo che gli Israeliti hanno peccato contro Dio adorando il vitello d’oro. Jahwé li vuole annientare, ma «Mosè ritornò dal Signore e disse: "Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d'oro. Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato... Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto!» (Es 32,31-32). C’era una rottura di relazione, una barriera tra Dio e il popolo d’Israele: «Egli li avrebbe sterminati se Mosè, il suo eletto, non si fosse posto sulla breccia davanti a lui per impedire alla sua collera di distruggerli» (Sal 106,23). Qualcuno sostiene che Gesù non avrebbe domandato di pregare per gli altri. Ma ciò non corrisponde a verità. Innanzitutto, ce ne ha dato lui stesso l’esempio. Ha detto a Pietro: «Ho pregato per te» e gli ha anche rivelato l’oggetto della sua preghiera: «perché la tua fede non venga meno» (Lc 22,32). Ha pregato per gli apostoli: «Pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre» (Gv 14, 16). Ha pregato infine «per tutti quelli che crederanno in me» (Gv 17, 20); dunque per tutti i credenti che si sono succeduti e si succederanno sulla scena della storia. Ha dunque pregato anche per noi che siamo qui questa sera; anzi - ed è commovente pensarlo - prega ora per noi, giacché «è sempre vivo per intercedere a nostro favore», come assicura l’autore della lettera agli Ebrei (cf Ebr 7,25). E poi, Gesù ci comanda di pregare per quelli per i quali ne abbiamo meno voglia: i nemici (cf Mt 5,44). Quando uno giunge a pregare per i nemici, è capace di pregare senza difficoltà per chiunque altro. Imitando Cristo, questa forma di preghiera si sottrae alla sfera dell’egoismo individuale e assume un respiro ecclesiale; diventa una forma di carità. Notiamo infine che la preghiera di intercessione non è appannaggio di persone specialmente selezionate o che abbiano ricevuto un dono particolare. Ogni cristiano è chiamato ad intercedere. La ragione è semplice: Dio ci ama tutti; non ha inviato il suo Figlio per salvare unicamente un piccolo gruppo di discepoli scelti, ma «perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17); Egli vuole infatti «che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4). Ogni cristiano ha quindi uno speciale ruolo da giocare nei confronti di tutta l’umanità: chi segue Gesù, condivide la responsabilità della salvezza del mondo. La preghiera di intercessione è una conseguenza della legge della mutua appartenenza e della mutua responsabilità e propone la cooperazione diretta al piano di Dio per l’universo. 
per i vivi... Nella fede dei credenti e nella tradizione della Chiesa, è radicata la prassi di raccomandare le persone alla bontà e alla provvidenza del Creatore di tutti gli uomini: un bisogno particolare, una sofferenza fisica o morale, una situazione difficile e preoccupante, una scelta importante e delicata da compiere, un conflitto da comporre, una ferita da curare, la trepidazione nell’interpretare il presente e nell’affrontare il futuro... È vero che Dio sa già ciò di cui abbiamo bisogno, addirittura prima ancora che glielo chiediamo (cf Mt 6,8.32), eppure il nostro parlargli di qualcuno nella preghiera equivale a dirgli con insistenza e tenerezza: «Ricordati!». Che cosa producono le nostre preghiere? Cambiano forse la volontà di Dio? Sebbene alcuni testi della Bibbia possano dare questa impressione, è un fatto conosciuto che la volontà di Dio è la stessa di età in età e rimane immutabile. La preghiera non impedirà a Dio di giudicare il male, e neanche Dio potrà mostrarsi tollerante con il peccato come conseguenza della preghiera. Però, una sapiente intercessione può aiutare a trovare e realizzare una giusta decisione o a rovesciare una decisione sbagliata. Finalità della preghiera di intercessione non è dunque quella di ottenere un cambiamento nella volontà di Dio, ma di far sì che la creatura abbia parte ai suoi doni; di fare in modo che l’uomo si disponga interiormente ad accogliere e portare a compimento il progetto di Dio su di lui. Non dimentichiamo infatti che l’uomo, proprio perché creato libero e responsabile, può opporsi - innanzitutto con la barriera del peccato - alla salvezza che Dio gli offre. In questa prospettiva risuona incalzante la domanda degli inizi: «Dov'è Abele, tuo fratello?» (Gen 4,9). Dio vuole farci attenti al nostro prossimo, ci chiede un reale interessamento gli uni per gli altri, nella compassione, nel mutuo aiuto, nell’amore reciproco, ad immagine della sollecitudine che Egli nutre per ciascuno. Perché Lui è così, colui che dà se stesso, si prende cura degli altri e li ama fino alla fine (cf Gv 13,1). Non dimentichiamo che nel Vangelo il Signore dice a quanti hanno aiutato qualcuno: «Tu l’hai fatto a me» (cf Mt 25,31.46). Dunque, chi prega per un’altra persona si apre al suo bisogno - quasi lo assume su di sé - e ne fa memoria davanti a Dio. Icona luminosa di questo atteggiamento è Gesù, le braccia spalancate sulla croce, una mano sulla spalla di Dio e una sulla spalla dell’uomo, caricato delle nostre sofferenze e dei nostri dolori (cf Is 53,4; Mt 8,17). Anche il cristiano è chiamato a conservare le braccia distese, nella fedeltà a Dio e nella solidarietà con gli uomini. E a volte - lo sanno bene, tra gli altri, tanti genitori - per conservare una relazione con una persona non si può fare altro che portarla nella preghiera, nell’intercessione. Pregare per gli altri non è quindi un dovere, una funzione, qualcosa che si deve fare, ma l’espressione di una vita abitata dall’amore di Dio e degli uomini. Quando preghiamo per qualcuno, lo mettiamo in qualche modo sotto lo sguardo amoroso e provvidente di Dio ed invochiamo per lui grazia e benedizione, che lo accompagnino e sostengano nel cammino della vita. 
e​ per i morti Ma la tradizione della Chiesa raccomanda anche di pregare per i morti. Perché si prega per loro? La preghiera dei vivi può ancora cambiare qualcosa alla sorte del defunto? Nell’Antico Testamento c’è un solo testo che narra esplicitamente dei vivi che pensano ai morti: «Fatta una colletta, con tanto a testa, per circa duemila dracme d'argento, (Giuda Maccabeo) la inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio per il peccato, compiendo così un'azione molto buona e nobile, suggerita dal pensiero della risurrezione. Perché, se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti. Ma se egli pensava alla magnifica ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, la sua considerazione era santa e devota. Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato» (2Macc 12,43-45). Si parla chiaramente del sacrificio e della preghiera per i defunti in vista della resurrezione. Questa fede di Giuda Maccabeo, vissuto circa 100 anni prima di Cristo, non era condivisa da tutti i Giudei. Anche ai tempi di Gesù, i Sadducei rifiutavano di credere alla resurrezione, dunque al fatto che la vita continui dopo la morte. Gesù risponderà loro che la fede nella resurrezione dei morti può essere condivisa unicamente da quanti credono nella potenza del Dio dei viventi (cf Mc 12,24. 27). Anche i cristiani di Tessalonica erano preoccupati della sorte dei defunti che avevano creduto in Gesù, giacché consideravano che non sarebbero stati presenti all’atteso ritorno del Signore. Paolo li rassicura: la morte non separa i credenti da Dio; al contrario, è attraverso la morte che essi si uniscono pienamente al suo mistero: «Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell'ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza. Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti» (1Ts 4,13-14). Il ricordo dei nostri morti nella Preghiera Eucaristica assume così un senso: «Dona loro, o Signore, e a tutti quelli che riposano in Cristo la beatitudine, la luce e la pace» (PE I). Dopo la sua vita terrena, Gesù ha fatto ciò che nessun fondatore delle grandi religioni ha potuto fare: «È risorto, non è qui» (Mc 16,6), dicono gli angeli alle donne venute al sepolcro per imbalsamarlo. Perché se Cristo non è risuscitato, la predicazione degli Apostoli è vuota e vuota anche la nostra fede, dice ancora san Paolo (cf 1Cor 15,14), che chiama il Risorto “primizia” di coloro che sono morti (cf 1Cor 15,23): ciò che è successo a Cristo è pegno e garanzia di ciò che succede e succederà ai credenti. Ma dove sono i morti? Qual è la loro dimora? Troviamo la risposta nella Scrittura: «Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento li toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero, la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. I fedeli nell'amore rimarranno presso di lui, perché grazia e misericordia sono per i suoi eletti» (Sap 3,1-3.9). E che cosa c’è dopo la morte? È la domanda che ossessiona molta gente. Perché, in fondo, l’uomo riconosce di buon grado di essere mortale, ma non può accettare facilmente l’idea di dissolversi totalmente nel nulla. Fondamento della nostra speranza nella vita più forte della morte è Gesù Cristo, «primogenito di quelli che risorgono dai morti» (Col 1,18), lui che ha detto: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà» (Gv 11,25). L’uomo non è destinato a scomparire come un animale; i nostri morti non si dissolvono nel nulla; essi “vivono in Dio” e rimangono strettamente a noi legati. Né fantasmi, né puri spiriti, essi continuano ad essere delle “persone” a pieno titolo che ci precedono nel “faccia a faccia” eterno con Dio. Una autentica relazione con loro può essere vissuta unicamente nella preghiera, in modo particolare nella celebrazione eucaristica, non certo facendo ballare i tavolini o invocando gli spiriti. La preghiera dei vivi per i defunti è professione della fede che afferma che la morte fisica non è la fine della vita; che c’è sempre un “al di là” ad ogni morte materiale (cf Gv 11,25-26). Perché per il cristiano tutto si vive nella fede in Cristo; non c’è nulla che possa essere escluso dalla sua fede, nemmeno il ricordo dei defunti, ai quali la vita «non è tolta, ma trasformata» (Prefazio I nella Messa dei defunti). I legami intessuti tra i credenti per la partecipazione al Corpo e al Sangue del Signore non vengono interrotti dalla morte e la preghiera ci permette di ravvivarli continuamente. Non si tratta dunque di pregare per influenzare una qualsiasi decisione di Dio nei confronti di chi è morto, bensì per raccomandarlo alla sua misericordia di giusto giudice e di salvatore. Ancora una volta, alla base è un legame di solidarietà nell’amore reciproco: preghiamo per i morti perché li amiamo. E sappiamo che anch’essi continuano ad amarci, con un amore ancora più grande di quello che nutrivano per noi nel corso della loro vita terrena, perché non più limitati dalla fragilità della natura umana; adesso essi amano con la stessa potenza dell’amore di Dio. Nella preghiera esperimentiamo la comunione con loro, mentre chiediamo loro di accompagnarci dal cielo e di parlare di noi a Dio; esprimiamo inoltre la convinzione che l’amore è più forte della morte, nella quale non li lasciamo soli. Perché la morte fisica non può sciogliere i legami dell’amore e della carità, che tutti ci uniscono in un solo e stesso corpo. Quando preghiamo per i defunti, ci basta sapere che il loro amore di Dio continua a crescere e che essi hanno bisogno del nostro sostegno, così come noi del loro. Lasciamo il resto a Dio. 
Conclusione In questo mistero consolante di amore e di solidarietà si colloca dunque l’opera di misericordia spirituale che ci chiede di pregare per i vivi e per i morti. Alla domanda che, novello Caino, potremmo formulare: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9), la risposta immediata è «sì!». E viene richiesto a ciascuno di farsi carico di ogni fratello, nella preghiera e nella carità operosa. Torniamo dunque all’inizio, con il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Poiché tutti i credenti formano un solo corpo, il bene degli uni è comunicato agli altri... Allo stesso modo bisogna credere che esiste una comunione di beni nella Chiesa... L’unità dello Spirito, da cui la Chiesa è animata e retta, fa sì che tutto quanto essa possiede sia comune a tutti coloro che vi appartengono» (947). È bello, in questa prospettiva, riascoltare François Mauriac: «Quando la grazia diminuisce in voi, diminuisce in molti altri che si appoggiano a voi. Per quanto meschini, se siete del Cristo, molti si riscalderanno a questa fiamma e avranno la loro parte di luce. Ma se in voi ci sono le tenebre del peccato, queste accecheranno coloro che dovreste illuminare. E il giorno in cui non brucerete più d’amore, molti altri moriranno di freddo». L’augurio (egoistico) che nasce spontaneo - per voi e per me - è quello di avere sempre accanto nel cammino della vita qualcuno che bruci d’amore, per poter essere sicuri di non rischiare di morire di freddo. E l’impegno da parte nostra dovrebbe essere corrispondente: imparare ogni giorno a bruciare d’amore perché nessuno muoia di freddo.
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