Cosa ricorda di Giovanni XXIII?«Tante cose. Soprattutto mi torna in mente la sua grande umanità, capacità di ascolto. Ricordo come le udienze private avute con lui, la sua curiosità nel sapere che studi avevo intrapreso e lo stupore che ebbe nello scoprire che già così giovane avevo scritto due libri. E rammento la sua replica stupita e bonaria: "Io ho impiegato dieci anni a pubblicare i miei scritti su San Carlo Borromeo nella diocesi di Bergamo… e lei in due mesi ha già prodotto così tanto". Si vedeva già in queste piccole cose la sua profondità di studioso dei Concili, di come aveva già ruminato dentro di se i modelli di santità e di annuncio imparati alla scuola del grande santo riformatore ambrosiano. E poi la sua stessa vita di diplomatico, di uomo di frontiera come nunzio in Paesi difficili come la Bulgaria, la Turchia, la stessa Francia e il patriarcato di Venezia avevano preparato il suo animo all’idea di un Concilio ecumenico che doveva essere "il frutto di un’ispirazione dello Spirito Santo"».Un Concilio ispirato da papa Giovanni ma che poté continuare grazie a Paolo VI…«Sicuramente esiste una continuità ideale. Grazie a Montini e alla fedele collaborazione dei quattro moderatori del Concilio i cardinali Döpfner di Monaco, Lercaro di Bologna, Suenens di Malines-Bruxelles e Agagianian (Propaganda fide) il Concilio va avanti e rafforza il lavoro delle Commissioni. In un certo senso dal 1963 si entra nel vivo del Concilio con la seconda sessione. Da quella data fino alla fine vengono promulgati sedici documenti: quattro costituzioni, nove decreti e tre dichiarazioni. In questo arco di tempo emerge la figura di Montini, la sua capacità di unire e non dividere le varie anime del Concilio tra "minoranza" e "maggioranza". La caratteristica forse che più mi ha colpito di questo Pontefice è stata la grande generosità intellettuale».Dei tanti documenti quale, eminenza, ha rappresentato la bussola della sua vita?«Ogni documento rappresenta una storia e una sintesi a sé. Si potrebbe rileggere questi testi anche venti volte e ogni volta si scoprirebbe qualcosa di nuovo. Certamente pietre miliari del Vaticano II sono state le due grandi costituzioni dogmatiche Lumen Gentium e la Dei Verbum. Si pensi solo all’attenzione che quell’assise ebbe nei confronti del laicato, dei religiosi, dei vescovi, all’importante definizione voluta da Paolo VI di Maria come "Madre della Chiesa". Credo che il modo migliore per essere oggi fedeli ermeneuti del Concilio Vaticano II sia quello di essere autentici interpreti del suo messaggio. Io ritengo che, a distanza di cinquant’anni il Concilio è ancora lontano dall’essere ascoltato e capito. Si è trattato di un evento che ha cambiato l’immagine della Chiesa e il suo modo di dialogare col mondo e la modernità. Io mi sono ritrovato, a questo proposito, spesso nelle parole del cardinale Garonne quando affermava: "Tappa dopo tappa il Concilio ha compreso che, seguendo l’invito di Giovanni XXIII, più che inventare cose nuove, doveva imparare ciò che già sapeva"».Un documento che alimentò una lunga discussione fu sicuramente la dichiarazione Dignitatis humanae personae?«Questo documento non è stato compreso, a mio giudizio, nella sua profondità e ha suscitato, più di altri, il successivo scisma dei lefebvriani. È stato vissuto da loro come un invito al relativismo quando invece questo testo invita, soprattutto a possedere dentro di se una coscienza illuminata; il punto centrale di questa dichiarazione è aderire alla verità nel rispetto evangelico delle coscienze degli altri. I vescovi italiani come quelli spagnoli erano contrari o titubanti verso questa dichiarazione rispetto ai loro confratelli statunitensi che da secoli sperimentavano, da minoranza, il diritto alla libertà religiosa. Ci fu veramente il rischio che questo documento, definito già allora da Karol Wojtyla come "uno dei più importanti del Concilio" non venisse approvato. La grandezza di Paolo VI fu di far decantare le tensioni con una sospensione che fu letta dai fautori della Dignitatis humanae> come il "settembre nero", perché poteva significare il suo "seppellimento". Ma non fu così».Cosa ricorda di quel periodo?«Certamente le tensioni. Io ero in quel periodo della mia vita in segreteria di Stato. Mi torna in mente come fosse ieri la preoccupazione del cardinale Paul Emile Legér, canadese, che indirizzò a Paolo VI una petizione di centinaia di vescovi perché si approvasse quel documento e le sue parole concitate, ma ferme: "Istanter, stantius… istantissime…". Sarà poi la mediazione di Papa Montini a smussare le spigolosità di molti padri conciliari. Ricordo come fosse ieri il monito di Paolo VI: "Nessuno sia impedito o costretto di credere"; da quel momento questo documento è divenuto una bussola nel campo dei diritti della libertà religiosa e del primato della coscienza».Quale eredità il Concilio lascia all’uomo di oggi?«È stato un evento che ha permesso di rappresentare per la Chiesa una magna charta sul futuro. Mi ritrovo nell’auspicio di Benedetto XVI di scoprire una giusta "ermeneutica della continuità" tra il prima e il dopo Vaticano II, in cui non c’è una rottura, ma un filo rosso che unisce il grande Concilio del Novecento con tutti gli altri. Ricordo che una volta, incontrando il cardinale Suenens e il padre Congar rammentai questa piccola verità: "State attenti, voi parlate sempre di Concilio Vaticano II prima e dopo, dando l’impressione di una falsa rottura". E loro amabilmente risposero: "Monsignore ha ragione, dobbiamo stare attenti a non dare questa falsa interpretazione"».