Christian La Rosa è Pinocchio nello spettacolo di Antonio Latella al Piccolo di Milano
Certo, il padre. Geppetto, perennemente disilluso e tradito da Pinocchio, eppure amato, come ama chi non sa amare, l’adolescente, l’egocentrico, il narcisista. Malamato. Ma il vuoto, quando manca o è in pericolo, è percepito. Forse, nonostante la mia incompatibilità con le teologia («certo che non ti interessa la teologia – mi disse un giorno Peppo Pontiggia, che ne era un lettore attentissimo – Tu sei credente!»), l’interpretazione “teologica” di Pinocchio di Giacomo Biffi è notevole. Non ci troviamo di fronte a un burattino da pupazzari, ma a una maschera dell’uomo prima che fosse uomo, prima del pianto per i morti, prima della compassione e del simbolo, prima dello sguardo al cielo, del tremore al tuono e al fulmine: un piccolo uomo, un tremante ominide. Biffi ci induce alla compassione per Pinocchio, come Hillman lo inscrive nella luminosa parata dei “ puer”, specialità italiana (non a caso imparentata con quella degli amatori, negli anni Cinquanta, poveri ma belli, fanciulloni). Hillman cita, tra i consimili di Pinocchio, anche il grande Leonardo, che scriveva il massimo trattato sulla pittura di ogni tempo e dipingeva il mistero della Vergine delle rocce, e scopriva il senso del sorriso, ma poi si schiantava rompendosi varie ossa, lanciandosi dalle rupi toscane con i suoi protoelicotteri che immancabilmente precipitavano al suolo, mortificando il fanciullesco desideratore di volo… Puer. Puertoscano anche lui, Leonardo, come l’altro puertoscano Benigni, che conosce bene il vinciano, e che fu imprevedibilmente un Pinocchio deludente, perché parafelliniano…
Certo pensiamo al padre, al povero generoso e innocente creatore, artigiano, e a quella fata irraggiungibile (Bennato ci è arrivato meglio di Disney), non madre, non sorella non santa… Una delle fate più fate di ogni tempo, di cui l’autore, Collodi, sottolinea non l’eternità ma la morte, la vita in morte… anche se è azzurra, fatta di cielo… Ma in un momento culminante della prima parte gli pongono la domanda, anagrafica, burocratica, brutalmente: «Madre?» E lui risponde «ma…ma…ma...». «Lo balbetta dall’inizio. È il primo dolore. la prima sofferenza…». «La cognizione del dolore: Latella, e questo burattino che si accorge di non avere mamma, non è, in scena, un bambino. Il teatro, quanto il cinema, consente di far recitare un bambino. Pensiamo a Harry Potter. O anche al Pinocchio televisivo, toccante, di Comenicini. Lei ha scelto un attore trentenne. Bravissimo. Una volta tanto virtuosismo meritevole, non fine a se stesso. Virtuosismo necessario…» «È stato l’ultimo a venire. Nel momento in cui ho iniziato a fare Pinocchio trovavo gli altri. Ma per lui, per Pinocchio, non sapevo ancora chi avrei scelto. Non avevo idea. La ragione è che nel primo adattamento non facevo i conti con il mio Pinocchio. Ne cercavo uno che andasse bene per tutti. No. Devi metterti allo specchio e cercare con maggiore sincerità il tuo Pinocchio. Il tuo. Quella piccola campanella dentro di te dall’infanzia, che sai di aver lasciato dormire. Ma se ti guardi dentro si risveglia».
La lingua teatrale di Antonio Latella scorre come un sogno del mattino, i sogni bianchi di cui parlava Aristotele: visionari e notturni ma già lucenti e prerazionali, per il giorno imminente. Incantato, questo spettacolo, e durissimo. È un interprete di Pinocchio, per dna, lo si sente. Perché Pinocchio non è una fiaba folk gotica rielaborata da uno scrittore (Grimm) o riscritta da un colto pennaruolo cortigiano (Perrault), né il sogno assoluto, visionario di un poeta (Andersen, Wilde, gli anonimi delle Mille e una notte, Basile). No, Pinocchio è il romanzo più importante dell’Ottocento italiano (accanto ai Malavoglia). Pinocchio avrebbe dovuto essere libro di studio al liceo classico, Pinocchio opera della magia italiana, del toscano che nasce rinascente nel paese da poco unito, non del toscanismo degli stenterelli, non I promessi sposi... Niente sciacquatura di panni in Arno, ma il fluente toscano ruscellante di Carlo Lorenzini detto Collodi, collaboratore del dizionario nascente del- la lingua italiana… Antonio Latella porta in scena Pinocchio al Piccolo di Milano (fino al 12 febbraio). Nel cast, oltre all’incredibile e sismico burattino di Christian La Rosa, interpreti eccellenti: Michele Andrei, Anna Coppola, Stefano Laguni, Fabio Pasquini, Matteo Pennese, Marta Pizzigallo e Massimiliano Speziani.
La drammaturgia è di Latella, Federico Bellini e Linda Dalisi. Il teatro, che è anche produttore dello spettacolo, può esserne fiero. Perché questo Pinocchio, pur con qualche difetto, limabile (sostanzialmente lunghezza e qualche frase di troppo) si inscrive nella tradizione archetipica del Piccolo, nella scia dei vivaldiani Goldoni di Strehler, linea italiana: Vico, Vivaldi, Pergolesi, Rossini, Goldoni, Collodi. Come in Goldoni la tragedia non è sotterranea e latente (quello è il tragico Molière). Come in Rossini e Goldoni la tragedia non appare, incantata dal gioco, dai mangiafuoco, dalle fate, dalle locande, dagli zecchini, dai bari… Latella crea uno spettacolo da Piccolo, facendo di Collodi il discendente di Goldoni: che è la linea italiana al teatro e alla prosa. «Non spettacolo per bambini. È duro, forte, inquietante. Ma senza esagerare nei divieti. Esistono capolavori per “bambini di ogni età”. Spesso sono i supremi: Odissea, Isola del tesoro. Certo però il Pinocchio di Latella è duro, il bambino va guidato». «Non è uno spettacolo per bambini, come lei dice, ma come lei aggiunge, guai a escludere, nello spettatore, la dimensione infantile. I genitori possono accompagnare il bambino. E vedono il lato realistico. Il bambino vede il lato fantastico, laddove l’adulto raramente arriva». «Il suo Pinocchio in scena non è un bambino. Anche se è così bravo che sembra tale». «Potevo farlo più giovane. Ma ho scelto un giovane uomo… Ripeto, scelti gli altri, non sapevo da dove partire. Forse mi colpì il talento straordinario di Christian. Strepitoso il suo balbettio che diventa canto, un po’ cieco… Vede, così ho sentito che funzionava. Il primo Pinocchio di Collodi finiva con il burattino o bambino, impiccato. A furor di popolo fu fatto resuscitare. Di qui la seconda parte, più onirica: la fata, il sogno, l’incanto fiabesco… Una specie di Purgatorio. Seguo la versione ultima del libro. Unica mia variazione, l’incontro con il padre, nel finale ».
«Durissimo, enigmatico, da cinema americano di oggi. Un giovane e un padre che s’incontrano e non si incontrano. Il ceppo di legno esiste ancora. Perché un Pinocchio che si porta sul petto, come una corazza, quel ceppo, quel legno pesante: non è nato dal suo spirito, dalla sua linfa?». «No, quel tronco è un peso. Lo sarà in tutta la sua vicenda». Le parole servono, prima e dopo lo spettacolo. Le parole dello spettacolo durano, continuano a esistere mutuate dalle immagini, fatte memoria dalle immagini. «Quell’incessante nevicata, trucioli, ma neve, come quella di marzapane di Dickens e quella farina di Dylan Thomas, neve, trucioli, prove del lavoro del falegname, dalla sua bottega, là in alto, e neve, e lì, Pinocchio, nel primo momento preumano, nella cognizione del dolore, che ammutolisce e poi balbetta: chi è mia madre? Mamma? M.M.M.» «Balbetta la M, all’infinito. Madre. Morte. Ma anche Mare…».