Se vi state chiedendo, perché il calcio italiano sfigura - da tempo - appena valica le Alpi, le risposte sono molteplici. E nessuna di queste, al momento, consente di allontanarsi dallo status di angusta mediocritas. La Juventus, poco allegra di Max Allegri ha serie possibilità di calare il poker di scudetti consecutivi, ma poi in Champions le basta un piccolissimo Olympiacos e le acrobazie di Roberto, un gatto di portiere scartato dall’Atletico Madrid, per ritrovarsi con l’ormai classico rischio di venire subito estromessa dal circolo ristretto dell’Europa che conta.Stesso discorso vale per la Roma dei “7 golli” incassati nella notte choc dell’incontro ravvicinato del terzo tipo con i marziani del Bayern Monaco. I giallorossi sono tornati «al centro del villaggio», proprio come voleva il sergente Garcia, ma è un villaggio locale e assai poco globale quello su cui si possono affacciare Totti e compagni. «A tratti la Roma è noiosa», ha detto “mister simpatia” Zeman non senza il dentino avvelenato dell’ex, ma anche con la consapevolezza che qui da noi ormai per vedere del sano calcio offensivo bisogna sintonizzarsi su un Empoli-Cagliari. Nello 0-4 degli allievi sardi di “Zemanlandia”, contro i pur spregiudicati giovani toscani del ragionier Sarri, c’è l’essenza di un pallone nostrano che regala qualche scampolo di speranza soltanto nella sua dimensione più sana, ergo, provinciale. Non è un caso, infatti, che le terze forze del torneo siano le periferiche Udinese e Sampdoria. La consolidata fabbrica friulana dei talenti della famiglia Pozzo e del redivivo “allenatore ragazzino”, Andrea Stramaccioni, se è lassù in alto lo deve soprattutto alle magie balistiche e ai gol di due ultratrentenni, la bandiera Totò Di Natale (37 primavere) e il francese Cyril Théréau (31). Quanto alla Samp c’è chi grida al “miracolo”, ma rivedere seduti in tribuna a Marassi i vecchi “gemelli del gol” Mancini& Vialli e poi assistere alle prove in campo, generose e non oltre, dei loro umili discendenti Okaka e Gabbiadini, fa pensare al Flaiano che avverte: «Coraggio, il meglio è passato». Nell’aurea pochezza così brilla come oro la Samp tutta grinta e aforismi riciclati della tigre serba Mihajlovic, ma soprattutto della nuova maschera del carnevale calcistico, il presidente Massimo Ferrero. Un uomo chiamato “Viperetta” il patron doriano che si era presentato dicendo: «Tre cose ho capito del calcio: che è spietato, parecchio improvvisato e pieno di impostori». In attesa di capire a quale delle tre categorie intenda iscriversi, intanto, è stato pienamente ammesso al circoletto dei furbetti del palloncino. L’onnipresente padre padrone della Lazio, Claudio Lotito, lo ha introdotto agli altri presidenti avvertendoli: «Questo è Ferrero, mo’ so affari vostri...». L’espressione lotitiana per una volta non è in latino e anche molto più colorita di quella riportata, ma ogni tanto è ammessa anche la censura. Cosa che non fanno più i programmi sportivi, di tutte le Reti, colonizzati da giornalisti-tifosi e pseudopinionisti che hanno eletto l’imbarazzante Ferrero a loro capo ultrà. I gattopardi del tiki-taka dell’etere e i Varriale se la spassano quando invitano alla diretta il finto avvelenato che, in un romano testaccino, lancia frasacce cacio e pepe alla rinfusa all’indirizzo di quelli che non considera colleghi. «Perché – dice – i colleghi ce l’ha mio fratello che guida l’autobus». Pensavamo di aver già visto e sentito tutto il peggio, ma il pensiero football-trash sciorinato dal tribuno Viperetta è la prova estrema dell’inarrestabile agonia del calcio italiano. Chi cura la regia delle situation comedy mediatiche di Ferrero (molto meglio le imitazione di Crozza) dovrebbe spiegargli che non si può dare, in diretta Rai, del «filippino», all’indonesiano Erick Thohir, solo per difendere (da cosa poi?) il suo «amico Massimo Moratti». Scriveva Gianni Arpino, «la vita o è stile o è errore», ebbene questo nuovo avventuriero della nostra misera Repubblica fondata sul pallone, pare non possedere nessuna traccia di stile, mentre invece incappa continuamente in errori. Pur di strappare l’applauso della Curva, il Viperetta è uno che disconnette la bocca dal cervello, in uno stato di permanente alterazione. «C’è gente che tiene il vino benissimo: non si ubriaca nemmeno se l’imbottigli». Diceva Beppe Viola, che nella domenica dei Ferrero (il 26 ottobre) avrebbe compiuto 75 anni, e se oggi fosse ancora qui avrebbe tanto da insegnare a queste rose infinite di uomini senza stile, ma pieni di spine.