Le quattro sorelle March sono interpretate da Saoirse Ronan, Emma Watson, Florence Pugh ed Eliza Scanlen, nel ruolo della madre c’è Laura Dern, Meryl Streep è la vecchia zia
Così come accade per D’Artagnan e i tre Moschettieri, ogni generazione ha le sue «piccole donne», chiamate in causa da chi si appresta a fare il punto sull’evoluzione della condizione femmini-le, già lucidamente affrontata da Louisa May Alcott nel suo celebre e immortale romanzo del 1868. C’è ancora bisogno di Meg, Jo, Amy e Beth, insomma, per riflettere su come cambiano i tempi e sul diritto delle donne a scegliere la vita che più si adatta alle proprie attitudini.
Il primo a portare sullo schermo la storia delle quattro sorelle, ambientata durante la Guerra Civile americana, è stato Harley Knoles nella versione muta del 1918 con Dorothy Bernard nel ruolo di Jo, poi nel 1933 è toccato a George Cukor con Katharine Hepburn, nel 1949 Mervyn LeRoy ha diretto Elizabeth Taylor e Janet Leigh, mentre nel 1994 dietro la macchina da presa troviamo una donna, Gillian Armstrong, e nel cast Winona Ryder, Samantha Mathis e Claire Danes e Kirsten Dunst. Ma ci sono stati anche uno sceneggiato televisivo sulla Rai nel 1955 con Lea Padovani e una miniserie della Bbc nel 2017 con Emily Watson, per non parlare delle due serie di animazione giapponese degli anni Ottanta.
A ritentare la sfida è di nuovo una regista, Greta Gerwig, che per il suo personalissimo Piccole donne, distribuito da Warner il prossimo 9 gennaio e candidato a due Golden Globe, ha chiamato a raccolta Saoirse Ronan, Emma Watson, Florence Pugh ed Eliza Scanlen nel ruolo delle sorelle March e Laura Dern in quello della madre, mentre Timothée Chalamet è Laurie Laurence, Louis Garrell è Friedrich Bhaer e Meryl Streep, strepitosa come sempre, interpreta la vecchia e antipatica zia March, che però la sa più lunga di tutti. Che la Gerwig, alla sua opera terza dopo Nights and Weekends, co-diretto con Joe Swanberg e Lady Bird, ma anche attrice e quinta donna nella storia del cinema candidata come migliore regista, abbia voglia di mescolare un po’ le carte in tavola senza allontanarsi però dallo spirito del racconto, lo si capisce da quella trafelata corsa di Jo che apre il film e indica allo spettatore un diverso percorso da seguire.
Le immagini che vengono dopo introducono il pubblico nella vita delle protagoniste ormai adulte e alle prese con le conseguenze delle scelte fatte: Jo ha rinunciato a Lauri per dedicarsi alla sua vera passione, la scrittura; Amy, in Europa con zia March, fa i conti con la mancanza di talento; Beth è ammalata e Meg stringe la cinghia con un marito povero e due figli da sfamare. Solo dopo la regista comincerà a farci viaggiare avanti e indietro nel tempo, mostrando i celebri episodi della caotica quotidianità delle ragazze, quando ancora giovanissime sognavano il proprio futuro, re- citavano insieme i testi di Jo, si stringevano alla madre, attendevano il padre partito per la guerra, facevano amicizia con i ricchi vicini di casa, litigavano furiosamente, ridevano a crepapelle, frequentavano balli, pattinavano, accudivano i poveri e i malati, si innamoravano.
C’è tutto, o quasi, nella rilettura della Gerwig, che colora di arancione il passato e illividisce il presente, ma tocca allo spettatore mettere insieme i pezzi di una narrazione non lineare, modernizzata da un montaggio più audace e da una maggiore consapevolezza da parte dei personaggi. È vero, il signor Lawrence non fa più così paura come nei film precedenti, il bravissimo Chalamet sembra troppo giovane al fianco delle sue colleghe, non tutti gli episodi hanno lo spazio che vorremmo e mancano alcuni particolari ai quali negli anni ci siamo affezionati.
Aggiungendo però al romanzo anche gli scritti della Alcott e alcuni momenti della biografia dell’autrice, la regista affronta in modo decisamente più esplicito il tema dell’autonomia femminile sottolineando la natura contrattuale del matrimonio, soprattutto per la donna, e i rischi della sua mancata indipendenza economica. E se la dolce Beth è sbiadita, così come in altre versioni cinematografiche, Meg è una donna che si interroga con maggiore lucidità sulla propria scelta di vita, che finirà per abbracciare nuovamente, così come la bella e impulsiva Amy ci appare molto meno sciocca e vanitosa, cosciente di non avere troppe alternative a disposizione. Jo, alter ego della Alcott, è sempre stata il personaggio più forte e affascinante e qui la vediamo anche dopo quella che è tradizionalmente stata la parola fine, impegnata a negoziare con il proprio editore royalties e finale del suo romanzo, Piccole donne, appunto. «Se scegli una donna per protagonista – ammonisce l’editore – fai in modo che alla fine sia sposata. O morta».
Proprio per rendere omaggio a un’autrice in netto anticipo sui tempi, la regista ci racconta che il romantico finale tra Jo e il professor Bhaer, reso ancora più enfatico nel suo film da una corsa in carrozza, era forse posticcio, frutto di un compromesso, ma ancora necessario in una società per la quale un mancato matrimonio sarebbe stata una scelta inaccettabile. Per reinventare bisogna tradire, questo è chiaro, e la Gerwig non ha paura di sfidare la tradizione. Non è forse quello che ha sempre fatto anche la nostra Jo?