La cantautrice statunitense Madeleine Peyroux
«Sconfitti, bevitori, vagabondi, barboni… »: sono costoro, gli ultimi, quelli che la cantante di Athens Madeleine Peyroux, paragonata al suo debutto addirittura a Billie Holiday, nel suo nuovo cd canta come All my heroes, tutti i suoi eroi. E se chiedi perché, risponde sicura. «Perché no? Le creature umane sono più importanti delle apparenze o del successo, che magari va a gente che poi noi, persone cosiddette normali, non conosciamo; tanto quanto non conosciamo i senzatetto. Io penso sia invece il caso di cominciare a mettere in evidenza come eroi veri gli uomini e le donne che provano a reagire alle tante, troppe difficoltà della vita di oggi. Vorrei provare un po’ anche a far cultura, con canzoni come questa: pure per sottolineare in tempi di razzismo strisciante che nessun essere umano è perfetto eppure la bellezza sta proprio nelle imperfezioni, e nelle differenze. Abbracciarle tutte è l’unico modo di capire l’umanità». Ci sono tanti ragionamenti profondi, nel bell’album Anthem con cui la Peyroux è tornata in scena a due anni da Secular hymns, cd in cui già aveva messo in rilievo i valori, anche spirituali.
Stavolta le sue riflessioni denunciano falsità delle relazioni sociali e squallore dei dietro le quinte della politica ( The brand New Deal), rilanciano l’urgenza di saper accettare il tempo che scorre provando a vivere responsabilmente ( The ghosts of tomorrow), mettono in risalto l’amore come unica chiave per vincere la desolazione del male ( We might as well dance). Anthemè pop assorto e stratificato, con cui Madeleine Peyroux esce anche in via definitiva dall’equivoco della “cantante di blues” per rivelarsi personale e coraggiosa cantautrice, sempre eticamente rivolta a brani con cui scuotere e donare speranza: fra cover di Leonard Cohen, sprazzi sardonici e di deliziosa ironia, partiture d’atmosfera mai banali, persino il coraggioso musicare Liberté di Paul Éluard, quell’inesausto voler scrivere la parola libertà ovunque perché «in virtù di essa ricomincio a vivere / sono nato per conoscerti e dirti / libertà».
Il cd sembra ripartire dal brano Trampin’ del cd scorso, imparare ad accettare i pesi della vita per guadagnare un senso alla vita e nell’Oltre. È così?
È il modo con cui io concepisco il vivere. E specie dopo la vittoria di Trump qui in America, ho ritenuto doveroso impegnarmi ancor più a scrivere e cantare che dobbiamo reagire: e che dobbiamo farlo credendo in noi e in Qualcosa di più alto di noi.
Per questo in alcuni brani canta come siamo ridotti, e altri rispondono che l’amore salva tutto?
Per me tutti i brani di questo album sono positivi. Anche quando dico addio a chi se ne va o a un passato di rimpianti, sottolineo sempre che non serve piangere perché il senso resiste ed è in ben altro.
Ma questi suoi nuovi brani sono tutti autobiografici?
È impossibile non lo siano almeno un po’, però non esplicitamente. Quando scrivo esploro angoli miei e cose che vedo in altri, mischiando tutto. Lullaby è su una madre ma potrebbe anche dire di un amore, ad esempio; quando canto del vuoto che invade la mente, invece, non è una fragilità mia bensì una tragedia che oggi vivono troppi. Di solito provo a mettere la mia penna al servizio di riflessioni per sfogare, e magari sconfiggere, le paure che vedo in giro.
Perché un disco da cantautrice centrato però sulla cover di Anthem, scritta da Leonard Cohen nel ’92?
Dopo le elezioni vinte da Trump ero molto depressa per il futuro, e un amico mi ha fatto ascoltare questo brano che onestamente non conoscevo (parla di una fessura che lascia filtrare sempre luce anche quando la vita parla di aborti, razzismi, mancanza di legalità, nda). Mi ha ridato speranza e volevo condividerlo: anche perché non c’è rabbia in Cohen e io volevo rispondere all’oggi proprio senza rabbia.
Al termine del brano, molto caustico, sul nostro ipotetico New Deal, lei elenca una serie di parole dell’oggi: disinformazione, sottocultura, segregazione di massa… Qual è la più pericolosa?
L’ultima che ha detto. Negli States è evidente, in un razzismo dall’alto che riporta ai tempi della schiavitù dei neri. Poi ci sono la schiavitù del bu- siness e molte altre cose, ma quella è il peggio.
Dopo essere cresciuta come artista di strada, il suo debutto nel ’96 ebbe grande successo; e lei proprio allora uscì di scena, cantando per otto anni in piccoli locali lontani dallo show business. Perché?
Per studiare: e costruirmi una voce forte, che non fosse più paragonata ad altri. Ma anche per vedere cosa c’era nella vita oltre la musica. Quando poi ho capito che senza cantare non sarei mai stata felice, ho scelto la musica: e non per esempio una famiglia.
Ma oggi chi è Madeleine Peyroux? Una cantautrice, un’autrice blues, una cantante jazz…?
Credo che nessun purista di nessuno stile mi veda dalla sua parte, si parli di blues, pop, songwriting o jazz. Ma tanti linguaggi mi hanno fatto crescere e tanti ne ho studiati. Oggi non mi chiedo più cosa sono, sa? Mi reputo fortunata di essere qualcosa!