martedì 7 maggio 2024
La scrittrice tedesca di origine ucraina pubblica dei microracconti ispirati da immagini: dal Donbassa una nuvola. «Dialogando con esse si partecipa a un atto di creazione»
La scrittrice Katja Petrowskaja

La scrittrice Katja Petrowskaja - Sasha Andrusyk

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Si parte da una fotografia: un minatore ucraino ripreso a mezzo busto in orizzontale, il volto appena intuibile dietro una coltre di fumo, il nero della faccia solcato da una sigaretta bianca che pende dalle labbra. Siamo nel 2015, è passato un anno da quando è scoppiata la guerra nell’Ucraina orientale e lui è un resistente, sono sei mesi che lavora senza stipendio nella miniera di Krasnoarmijs’k, Donbass. Questo sguardo è bastato ad accendere la miccia. La scrittrice tedesca di origine ucraina Katja Petrowskaja, che già ci aveva condotto per mano nella genealogia della sua famiglia ebreo-polacca con Forse Esther, pubblicato nel 2014, riprende a scrivere estraendo dal cilindro un’opera singolare: La foto mi guardava (Adelphi, pagine 260, euro 19,00) una raccolta di 57 testi-miniature a commento di fotografie pubblicati ogni tre settimane dal 2015 al 2021 su un importante quotidiano tedesco e poi raccolti in un libro, ora ottimamente tradotto per l’edizione italiana da Ada Vigliani. «Quell’immagine mi inchiodava, sembrava pormi una domanda: dove sono io con le mie capacità intellettuali, la mia coscienza, il mio impegno politico? Lo sguardo del minatore del Donbass si contrapponeva al mio mutismo, alla impossibilità di dire qualcosa sulla guerra iniziata nel 2014», spiega Petrowskaja. E, come scrive nella postfazione, «non riuscivo più a lavorare come prima e cercavo una nuova forma, un nuovo atteggiamento, per poter ricominciare a scrivere, anche sulle cose che amo. E furono le fotografie a sostituire l’inespresso, a offrire il frammentario, a creare possibilità di silenzio e bellezza», frammenti di un mondo «strappato al tempo e allo spazio», perché «ogni foto mette in salvo qualcosa di transitorio».

Il libro raccoglie i suoi commenti a fotografie lungo un periodo di circa 7 anni, come le sceglieva?
«Erano immagini che mi avevano colpito in qualcosa di particolare. Si tratta a volte di foto storiche o comprate al mercatino delle pulci, altre viste in qualche mostra o in archivi privati, su internet, o altre ancora che ho scattato io stessa. Penso di essere una velocista, scrivevo brevi impressioni, coglievo emanazioni di qualcosa che intuivo di vedere. Non erano testi sulla fotografia, ma su singole foto, in modo molto simile all’incontro con le persone: vedi una persona e capisci che ne sei attratto, ma non sai perché. In una certa misura stavo riproducendo in me il processo creativo del fotografo, era come un rifotografare l’immagine con la mia anima. C’erano anche molte altre foto che amavo, ma non potevo parlarne, mi soffermavo solo su quelle che mi chiedevano di essere raccontate».

Tra le tante si vede una nuvola che brilla in un cielo limpido, quasi un’epifania...
«La nuvola rappresenta in qualche modo la nostra memoria. Noi conserviamo i ricordi nella cosa più misteriosa del mondo: una nuvola. Nulla di assolutamente solido. In un certo senso questo testo è davvero un’epifania. Fotografando la nuvola ho capito come l’intera creazione della metafisica provenga dalla meteorologia e nel tuo interloquire con una fotografia, in qualche modo, partecipi a questo atto di creazione».

Il libro è uscito in Germania nel 2022, allo scoppio della guerra in Ucraina, così come il precedente Forse Esther nel 2014 con l’invasione della Crimea. Una curiosa coincidenza…
«In effetti, anche Forse Ester è stato pubblicato sette giorni dopo l’annessione della Crimea. Quindi mi sono trovata, in un certo senso, nella stessa situazione: ero al lancio del mio libro ed è iniziata la guerra. E avevo la sensazione che fosse troppo tardi perché in un certo senso gli scrittori cercano di prevenire la violenza, è il nostro tentativo di opporvisi, magari in senso spirituale, perché un libro non è mai propaganda politica, ma una sorta di atto sacro di creazione di un nuovo contesto. Dal febbraio 2022 scrivo articoli sulla guerra: è la mia parte di resistenza, ma mi sento sempre sconfitta perché scrivere un testo efficace sulla guerra significherebbe fermarla, ma sembra impossibile ora che l’Europa fa sempre meno per aiutare l’Ucraina».

Nel libro lei commenta anche la foto scattata da un soldato tedesco, Dieter Keller, durante l’invasione dell’Ucraina nel 1941, sottolinea il suo sguardo da conquistatore…
«Non possiamo giudicare questo soldato tedesco dalla foto perché non sappiamo se in realtà si nasconda attraverso le sue immagini. Quando hai a che fare con la fotografia arrivi al termine di ogni possibilità interpretativa. Possiamo solo osservare che le sue immagini ci mostrano la realtà circostante, la mia terra, con uno sguardo quasi archeologico, come se stesse inventariando oggetti di un mondo distorto e in rovina. Ma sono queste persone, compreso lui, che stanno in quel momento rovinando quel mondo attraverso una delle più crudeli guerre di sterminio. Quindi, è davvero un punto di vista singolare: non è l’uomo con la macchina fotografica ad avere la responsabilità di ciò che sta facendo, sta semplicemente guardando, come se non fosse parte di quella immagine».

Mi viene in mente la sua bisnonna in Forse Esther, uccisa a freddo da un soldato tedesco a Kiev: la banalità del male direbbe Hannah Arendt…
«In realtà, in Forse Esther il punto focale per me era trovare un linguaggio per parlare della violenza senza a mia volta moltiplicarla. Un linguaggio che non fosse corrotto, che non fosse violento in sé. Consideriamo la storia come il susseguirsi di eventi inevitabili, ma io mi chiedevo se l’uccisione di persone fosse davvero inevitabile. Dov’è il punto di biforcazione in cui avviene nell’uomo la decisione? Si può fermare la morte? Per quanto riguarda Hannah Arendt, penso che abbia scritto uno dei più potenti libri sulla natura umana, ma l’espressione “banalità del male” è diventata nel tempo a sua volta banale. Perché si finisce per farsene un alibi: sappiamo che c’è una banalità del male, che le persone sono cattive, fine della conversazione… Talvolta è un modo per non assumersi la responsabilità e non giudicare i veri criminali. Penso che il mio libro Forse Esther e i miei testi sulle fotografie siano una protesta contro ogni tipo di banalità per mettere a nudo il libero arbitrio delle persone. La mia bisnonna è rimasta a Kiev, non è fuggita, e volevo proprio descrivere il “suo” modo di opporsi all’esercito tedesco. Solo così abbiamo la percezione della storia, delle ragioni che la determinano».

Che cos’hanno in comune questi due libri? Il suo modo molto personale e profondo di guardare alla realtà?
«Forse Esther era una sorta di Wanderung - la parola tedesca per certi libri di viaggio del Romanticismo - attraverso l’uomo moderno europeo, le città che ha costruito nelle quali ci sono strati di storia ovunque, non solo della Seconda Guerra Mondiale, eventi tuttora presenti e simultanei. Lo stesso vale per la fotografia, perché la fotografia accumula molti livelli di storia contemporaneamente e puoi leggerli come in un palinsesto. Così tutto succede adesso, non è solo memoria».

Lei tra pochi giorni sarà in Italia...
«Sì, il libro sarà presentato a Torino e a Novara. E voglio aggiungere un’ultima cosa riguardo all’Italia. In Germania c’è stata la prima di un ‘opera scritta da una compositrice italiana molto interessante, Lucia Ronchetti, che è anche responsabile del programma musicale della Biennale di Venezia, ed è su un mio libretto basato sul Sosia di Dostoevskij. Quindi, due eventi collegati all’Italia. E mi sento davvero italiana: non per nulla la casa dove sono cresciuta a Kiev si trova in via Firenze».

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