Il murales dedicato a Gigi Riva a Perdasdefogu - Foto Ognibene
È il momento dei ricordi collettivi, commossi, nostalgici, ed è giusto: Gigi Riva appartiene a tutti. Non c’è tifoso di qualunque squadra che non lo senta suo, nessun totale profano dello sport che non abbia il suo nome tra quelli che citerebbe per dire un eroe del calcio, forse il primo. Un esempio, un mito, una divinità dell’olimpo che ha condiviso con noi la breve stagione della gloria sportiva ma, a differenza degli dei, è rimasto in mezzo alla gente che l’ha adottato, sino all’ultimo.
Ma c’è anche chi da Gigi Riva si è visto cambiare la vita. Pur non sardo, io sono tra questi, e so di non essere affatto il solo. Non l’ho mai conosciuto di persona, nemmeno un autografo, un selfie, una parola scambiata per strada. Ma quando da bambino cerchi chi possa ispirarti a crescere e trovi una figura straripante di cose evocate e non dette come la sua – un cavaliere solitario, un impassibile creatore di istanti memorabili, una incrollabile certezza nei gesti precisi e nelle parole misurate, un volto inconfondibile con infinite storie dentro – innamorartene non è in discussione. Accade e basta, non ci puoi fare niente. Non è forse lo stesso per ogni incontro che ha impresso una qualunque direzione alla nostra esistenza?
Quando per tutta la vita si porta dentro il suo profilo scolpito nella pietra eppure così terribilmente umano, con tutte le fragilità e le ritrosie che appartengono ai veri uomini, il tifo per la sua squadra – totale, indiscusso, ovviamente monogamo – in fondo è quasi un dettaglio, un atto d’amore dovuto che finisce col mescolare un uomo e la terra che l’ha adottato, il campionissimo e la gente che l’ha custodito, la sua biografia e quella di un’isola che potrebbe prendere il nome del suo eroe tanto si somigliano, come due metà che si sono cercate per non lasciarsi mai.
Trovarsi Riva per compagno di banco dalle elementari all’età delle figlie che si fanno grandi significa scoprirsi moralmente sardi pur non avendo una goccia di sangue isolano. Perché Riva è stato un modo di stare al mondo, uno sguardo sulla vita, uno stile di rispetto non negoziabile verso tutti e di fierezza mai esibita, di umiltà consapevole dei doni ricevuti, di allergia assoluta a ogni presunzione e chiacchiera vana, di fiducia data e ricevuta anche sapendo di rischiare la fregatura, di amicizia discreta e fedele. Si può vivere così, lui ne è stata la dimostrazione certificata, il modello e lo standard immortale, ben oltre lo scudetto del Cagliari 1970 del quale la Sardegna è ancora custode gelosissima, con i murales nei paesi, la formazione che sa di album di famiglia, lo stadio Amsicora che porta il nome di un guerriero indomito come il popolo sardo. C’è una casa nella quale si sa di sentirsi come in famiglia, misteriosamente, e sulla porta sotto i quattro mori c’è scritto Riva.
Gianni Brera l’aveva ribattezzato “Rombodituono”, per dire della potenza assordante del suo sinistro. Ma confesso che mi è sempre sembrato un eccesso di retorica che sul “mio” Riva stava come un vestito troppo largo. C’è però in quel soprannome divenuto sinonimo dell’uomo anche una verità profonda, che fa compagnia adesso che tutti lo celebrano: ed è la forza morale che promana dalla sua figura, nelle foto giovanili che lo ritraggono statuario e titanico fino agli scatti dell’ultimo compleanno, il 7 novembre (lo stesso giorno in cui mi è nata una figlia, guarda tu il destino). Ora che noi tifosi del Cagliari, non sardi ma di stretta osservanza riviana, stiamo cercando di capacitarci della notizia impensabile della sua morte scopriamo di dover fare i conti con una domanda mai affiorata, forse imbarazzante (in fondo, ci diranno, era solo un calciatore), ma molto più vera di quel che saremmo disposti a confessare: quanto gli dobbiamo?