Dopo Versailles, è arrivato anche il Praemium Imperiale, il Nobel giapponese, a confermare un’impressione che era nell’aria da un po’ di tempo. Sembrava, cioè, che nell’opera di Giuseppe Penone stesse prendendo il sopravvento una sorta di riflusso manierista che rendeva preziose certe sue sculture, indebolendone l’artificio mimetico. La nebulosa di polveri dorate, che si posava ogni tanto sulle foglie delle sue essenze vegetali, a Versailles era diventato un solido totem con l’Albero folgorato che l’anno scorso si stagliava con ironica e derelitta grandeur sullo sfondo dei giardini e della immensa piscina della Reggia, diventando l’astro-narciso di una costellazione vegetale che da decenni l’artista italiano, uscito dai boschi dell’Arte Povera teorizzati da Germano Celant, va componendo.Le radici terragne di Penone diedero solamente l’imprinting alla sua idea di scultura, il resto è venuto dalla poesia e da uno sguardo interiore che isola forme archetipiche. Capita a tanti di cedere alle lusinghe della fama. Capita a tanti, ma non a tutti. Il genio, di solito, le mastica e poi le sputa con nonchalanche. Penone, per me, era (è) uno dei grandi scultori viventi, forse il più intenso tra gli italiani di oggi. Vedere a Versailles quell’albero che si apriva mostrando la propria carne dorata, ecco, aveva il senso di una caricatura, di una parodia della scultura, quasi una piaggeria verso chi, ospitandolo nella tenuta di campagna di Luigi XIV, il re che d’oro rivestì Parigi facendone quasi una divisa d’ordinanza del fasto barocco, aveva riconosciuto all’artista una fama imperitura, incidendo il nome di Penone fra quelli che ebbero il privilegio di abbellire, sia pure solo per poco, i giardini del Grande Sole dei francesi. Adesso, quell’albero, fa mostra di sé al Forte del Belvedere di Firenze, luogo deputato alla scultura fin da quando vennero allestite negli anni Settanta le grandi rassegne di Moore e Wotruba, assieme ad altre opere, alcune anche al Giardino di Boboli, sommando in tutto tredici sculture, sotto la cura di Arabella Natalini e Sergio Risaliti
Il cuneese Penone, nativo di Garessio, ebbe fin da giovane quell’intuizione poetica che poi ha continuato a elaborare fino a oggi: il rapporto analogico tra uomo e natura. Tutto ciò che è nell’uomo, se si scende in profondità, si radica alla terra, come l’albero. Tutto ciò che è nell’albero, se si guarda dentro, custodisce una realtà del tempo che diventa metafora della vita per l’uomo.Tendo a non prendere alla lettera i discorsi degli artisti, mi interessa, piuttosto, vedere nelle opere ciò che è sfuggito al loro controllo. Il frutto nato dal dormiveglia, più che la predeterminazione concettuale di un tema. Mi ha sempre affascinato l’idea che l’albero, nel suo corpo, sia un registratore del tempo o, come scriveva qualche anno fa Didier Semin in una monografia dedicata a Penone (Electa), che vi sia in esso un calendario nascosto: da questa idea era partito Penone, dopo le sue scorribande nei boschi di Garessio, e tutto si era palesato quando, in una grossa trave, aveva intuito l’immagine dell’albero che quel legno era stato un tempo, risalendo, attraverso la sgrossatura, fino all’“anello di crescita” delle ventidue primavere. In sostanza, Penone aveva scavato la trave, «togliendo uno dopo l’altro gli anni accumulati», fino a rivedere la forma dell’albero all’età di ventidue anni, i suoi stessi anni nel momento in cui, come un archeologo, completava quello scavo per riportare alla luce il reperto del tempo perduto. Il titolo di quell’opera era: Il suo essere nel ventiduesimo anno di età in un’ora fantastica. La fatalità, il miracolo di poter rivedere ciò che la pianta era in quel momento preciso (inciso nel suo corpo) e che la riduzione a trave aveva cancellato per sempre. La domanda da cui partiva Penone – che aveva una attitudine a sperimentare materiali in un certo senso “poveri”, in realtà intendendo con questo aggettivo una essenzialità della materia prima della sua trasformazione industriale –, era sostanzialmente questa: che cosa si prova a essere un albero, o a essere un fiume? Notava Semin che, secondo il taoismo, non potendosi condividere l’esperienza soggettiva del pesce, si dovrebbe ammettere che questa impossibilità si verifica anche verso l’esperienza soggettiva dei nostri simili. Lo studio sull’empatia di Edith Stein, troppo spesso dimenticato da chi tratta le questioni estetiche, aveva invece dimostrato un secolo fa, contro le teorie idealistiche dell’identificazione, che non è possibile vivere lo stesso dolore dell’altro, però si può partecipare al suo dolore attraverso la nostra esperienza di quel sentimento. Esiste, pur sempre, un piano di comunicazione interpersonale.Il mondo, d’altra parte, non è perfetto e postulare una identità di esperienza – magari totale – tra gli esseri di natura, attribuendo all’albero una capacità soggettiva, resta una metafora poetica. Roger Caillois, proiettandola surrealisticamente su un orizzonte di panteismo intellettuale, ovvero, come la definiva, di un’“estetica generalizzata”, ipotizzava una continuità fra cultura e natura e nel “mimetismo animale” cercava una conferma alle sue tesi. Non avendo il mimetismo degli insetti soltanto una funzione difensiva, come molti studiosi ritenevano, si chiedeva Caillois se quelle forme spesso fantasmagoriche non fossero la prova di un più generale programma estetico della natura.
La bellezza dell’albero, la sua commovente presenza (ma non dimentichiamo che in certe saghe nordiche la foresta è anche un luogo inquietante), è una bellezza “statica”, che risponde a predeterminati processi naturali, ed è percepita in senso poetico dall’uomo in quanto essere cosciente. Ma questa statica di natura, paradossalmente, può diventare un incipit della scultura. Ed è quello che da decenni cerca Penone: sgrossa legni, scava marmi, fonde bronzi e poi li tratta in modo tale che ti sorga il dubbio se siano alberi veri o fatti ad arte. Qui il “mimetismo” elabora ancora una idea barocca, il principio di assimilazione delle forme e della loro visione all’interno di un processo alchemico.
Semin parlava di «trasgressione dei regni», ovvero di una volontà di attraversamento delle forme naturali per affermarne l’intrinseca parità (estetica o metafisica?): «L’uomo, dice Penone, non è spettatore e attore, ma semplicemente natura». La verità della terra, dell’essere terra. Penone, però, non è un artista naïve, sentimentale, ingenuo. Quando critica il mondo fatto di superfici lisce, levigate, e paragona gli uomini di oggi a lumache che scivolano sulla superficie dei fenomeni senza conoscerne il corpo, il volume, le asperità, sta dicendo che la scultura è un’arte che sorge dalla natura, dalla sua materialità.
Come un angelico dendrita volante, Penone colloca sui rami dei suoi alberi-metafora giganteschi sassi di fiume, che stanno in apparente equilibrio precario, come se potessero caderci sulla testa da un momento all’altro. Chi ricorda il Pino sul mare di Carrà, avrà subito chiaro il contrasto fra il tronco quasi scultoreo e il piccolo cespo ovale di foglie alla sommità.
Questo per dire che se Penone guarda anche a un mondo primordiale – l’uomo degli alberi è una figura del paganesimo, ma anche del cristianesimo orientale, coi monaci e gli eremiti che vivevano in simbiosi con le piante trascorrendovi sopra o dentro molti anni della loro spesso non lunghissima vita –, la sua idea di scultura però segue una tradizione precisa, molto italiana. Diceva Martini – ultimamente lo cito spesso perché mi pare che la sua idea di scultura sia estremamente attuale – che la ricerca dell’essenzialità nella scultura assomiglia alla potatura invernale degli alberi, e in più occasioni ebbe a ripetere che l’albero era la figura complementare di quella umana, così ricongiungendo l’antico canone antropomorfo con quello plastico-tettonico.
Ecco, Penone dovrebbe liberarsi dalla zavorra delle seduzioni “estetiche” (quella dell’oro, che ha fatto breccia in modo evidente più di una decina d’anni fa), e tornare all’essenza costruttiva del suo “mimetismo vegetale”: la potatura invernale.
Firenze, Forte del Belvedere,
Giardini di Boboli
Giuseppe Penone
Prospettiva vegetale
Fino al 5 ottobre