Lo scrittore Paul Lynch - Ansa
Quando si finisce intrappolati negli ingranaggi del dispotismo persino il libero arbitrio può rivelarsi una finzione politica. È quanto accade in una Dublino dall’atmosfera cupa e apocalittica, in cui l’annientamento del contratto sociale cancella a poco a poco le libertà e i diritti civili lasciando spazio a una terribile dittatura del Terzo millennio. Un mondo distopico, ambientato in un ipotetico futuro o in un presente controfattuale, con un partito di estrema destra che va al potere e fa scivolare lentamente l’Irlanda nel totalitarismo. I cittadini iniziano a sospettare l’uno dell’altro, l’esercito apre il fuoco su pacifiche proteste di piazza mentre una polizia segreta dai poteri illimitati arresta arbitrariamente e fa sparire le persone. Il canto del profeta (66thAnd2nd, pagine 288, euro 18,00, traduzione di Riccardo Duranti) è il romanzo con il quale l’irlandese Paul Lynch ha vinto l’ultima edizione del prestigioso Booker Prize entrando definitivamente tra i grandi della letteratura contemporanea. Un libro che può essere letto come un monito e come la parafrasi di eventi che stanno accadendo davvero in qualche parte del mondo. Ma anche come un’approfondita indagine nell’animo umano e nelle sue contraddizioni.
La protagonista è Eilish Stack, una donna che tenta di salvare il marito e i suoi quattro figli da un incubo apparentemente senza via d’uscita. La vita della sua famiglia inizia a cambiare la notte in cui due uomini in borghese le bussano alla porta di casa per chiederle notizie di suo marito, un rispettato leader del sindacato degli insegnanti. Sono apparentemente cortesi e premurosi. «Non c’è niente di cui preoccuparsi», la rassicurano. Sono in realtà agenti della polizia segreta alla ricerca di dissidenti da far sparire. Il governo ha approvato una nuova legge sui poteri di emergenza che è il preludio della sospensione di tutti i diritti costituzionali. Nel giro di pochi giorni suo marito svanisce, come inghiottito nel nulla, insieme a centinaia di altre persone comuni circondate dal silenzio implacabile dello Stato. Eilish nega a lungo la gravità di quanto sta accadendo e quando infine se ne rende conto è ormai troppo tardi. Da quel momento in poi, mentre l’ordinaria quotidianità cui era abituata si sbriciola come sabbia sotto i suoi piedi, deve lottare per proteggere i suoi figli e suo padre, che soffre di demenza, nel tentativo disperato di metterli in salvo.
Intorno alle sue paure e alla sua disperazione Lynch racconta il collasso della democrazia riportando alla memoria echi di grandi classici della narrativa distopica come 1984 di George Orwell e Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, ma lo fa descrivendo le tensioni e la fragilità umane con una scrittura poetica, viscerale e con l’assenza quasi totale di punteggiatura. I dialoghi sono privi di virgolette, le frasi un tutt’uno con le descrizioni degli ambienti, con la psicologia dei protagonisti e con i flussi di coscienza, come a voler eliminare ogni differenza tra una cosa detta e una cosa pensata.
Quando iniziò a scrivere questo libro era il 2018 ed era appena scoppiata la guerra civile siriana. È vero che ha tratto ispirazione anche da essa?
«Sì ma non ero interessato specificamente ai fatti del Medio Oriente, quanto piuttosto al modo in cui gli Stati moderni possono sprofondare completamente nella guerra civile, nonché alle risposte fornite dall’Occidente a quella che è stata la più grave crisi di rifugiati dai tempi della Seconda guerra mondiale. In Europa non siamo riusciti a immedesimarci con le sofferenze delle persone che erano costrette a scappare dal loro Paese. Sono bastati quei due milioni di rifugiati per avvelenare il clima politico europeo e veder crescere un po’ ovunque il populismo, il nazionalismo e forme più o meno edulcorate di fascismo. Ma in quei giorni la mia immaginazione è stata catalizzata anche da un grande classico della letteratura europea».
Quale?
«Il lupo della steppa di Hermann Hesse. C’è un passaggio in cui Harry, il protagonista, osserva il caos in cui si trova la Germania nel 1927 e pensa che la guerra sia inevitabile. Lo lessi per la prima volta nei primi anni ‘90, ai tempi in cui si parlava di fine della storia e di un mondo finalmente pacificato. Rileggendolo nel 2018 ho provato un brivido, come se ci trovassimo di nuovo in una situazione come quella del ‘27, con una temperatura politica che sta cambiando lentamente senza che noi ce ne accorgiamo. Un capolavoro della letteratura può metterti di fronte a una visione del mondo che sta cambiando. Quel libro mi ha fatto capire che in quel momento eravamo entrati in un’epoca nuova e molto pericolosa».
Lei non ha mai scritto romanzi politici e non aveva intenzione di farlo neanche adesso. Perché ritiene che Il canto del profeta non possa essere definito semplicemente una distopia?
«Ritengo che sia innanzitutto uno specchio magico del nostro presente. Ogni romanzo che sembra un’opera di finzione basata su fatti immaginari cessa di essere tale quando quegli eventi si avverano in qualche parte del mondo. Sono lusingato dal paragone con classici come 1984 e Il racconto dell’ancella, sebbene quelli siano libri molto diversi dal mio. Spesso la narrativa politica conosce il problema e fornisce la soluzione. Io penso invece che la letteratura debba anche contemplare il dolore per ciò che non possiamo controllare, né comprendere e per quello che si nasconde dentro di noi. I miei libri sono incentrati su una visione tragica del mondo, tendono a essere più metafisici che politici, perché credo in quella che John Keats chiamava “capacità negativa”. Cerco cioè di scrivere immergendomi nell’ignoto, senza confrontarmi con la certezza dei fatti. Penso che la narrativa debba essere capace di articolare tutta la complessità del reale e la lente politica può basta per raggiungere questo scopo».
Perché ha avuto paura che questo libro avrebbe potuto distruggere la sua carriera?
«Al giorno d’oggi la narrativa di spessore vive giorni difficili e il mondo dell’editoria giudica gli scrittori soltanto in base al successo dei loro libri. Questo romanzo ha uno stile particolarmente ardito, oserei dire spietato, è un libro che vuole condurre il lettore fin dentro i nove cerchi dell’Inferno ed è uscito subito dopo la pandemia, quando i lettori volevano leggere soprattutto libri che li facessero stare bene. Invece io ho optato per un altro dei miei romanzi cupi, forse il più cupo di tutti e ho temuto che avrebbe potuto nuocere alla mia carriera. E invece mi ha fatto vincere il Booker Prize».
Fino a che punto ritiene che il libero arbitrio possa influenzare le nostre vite?
«La storia di Eilish, che all’improvviso si ritrova sopraffatta da eventi che non può più controllare, rappresenta anche un’esplorazione del tema del libero arbitrio. Credo che molte persone vivano nell’illusione di poter controllare la propria vita in tutto e per tutto. Ma quando arriva un evento enorme e inaspettato che sconvolge le nostre vite, come ad esempio il Covid, ci rendiamo conto che non controlliamo proprio niente. L’universo silenzioso in cui ci ritroviamo è un paradosso irrisolvibile che smette di affascinarmi».
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