Edgar Degas, «Ripetizione di canto» (1869, particolare)
La mostra Degas à l’Opéra che il Museo d’Orsay presenta in queste settimane - fino al 19 gennaio - è la prova sontuosa, bellissima ma incompiuta di come una esposizione, anche la migliore possibile, possa cogliere solo in minimissima parte l’argomento di cui tratta. E sto parlando di una mostra tra le più belle che siano mai state fatte su Degas, e in generale una delle più importanti che Parigi abbia allestito negli ultimi cinque anni. Così, senza dirlo esplicitamente, ho già detto molto: è un invito a ricordare che nel 2017, nel centenario della morte del genio francese, si tenne una esposizione, intitolata come il celebre saggio di Valéry, Degas Danse Dessin, dove il 3D – si perdoni il gioco di parole – restava di un piattume critico indegno della grandezza del maestro francese.
Poco male, ora rimedia questa grande mostra curata da Henri Loyrette, che già aveva ordinato quella del 1988 che rilanciò il discorso su un gigante per troppo tempo consegnato ai luoghi comuni sulla sua misoginia (inesistente), sul suo carattere burbero (la franchezza, per noi che viviamo in una società di ipocrisie infinite, non può che essere una virtù), sul suo antisemitismo (che non ha niente della grottesca immagine della Francia che viene fuori dall’ultimo film di Polanski). Degas è il più grande scultore moderno francese (a detta di Renoir e molti altri, e per ammissione del diretto concorrente, Rodin, le cui danseuses non staccano i piedi da terra); è il pittore delle prospettive sfalsate, in anticipo persino sulla fotografia di alcuni decenni dopo la sua morte; è un geniale sperimentatore di tecniche, dall’incisione (con l’invenzione dei monotipi) alla fotografia; scrisse otto sonetti che, a detta di Mallarmé – e scusate se è poco – , sono tra i più perfetti della poesia francese; era dotato di una conoscenza della storia dell’arte profondissima e di una visione teorica precisa – dove "non finito" e sprezzatura convivono con la ricerca maniacale sulle forme e nell’uso dei mezzi –; infine, melomane, cultore del balletto e cantore di arie popolari.
Con questa mostra il Museo d’Orsay aggiunge una ricerca ancora più specifica sulla Parigi che Degas amava e detestava al tempo stesso (come ogni buon carattere che possa perdonare molte cose, ma non l’ipocrisia: e la Francia dal 1870 e fino alla Grande Guerra si crogiolava nel filisteismo borghese). Henri Loyrette affronta il grande tema del rapporto di Degas col centro propulsivo della musica parigina, l’Opéra, e lo fa con la nonchalance e l’accuratezza di cui è capace soltanto chi “convive” col suo oggetto di fascinazione da decenni, conoscendolo come un proprio famigliare. Il catalogo che accompagna la mostra è una vera e propria monografia che segue fasi e temi dell’opera di Degas in rapporto al mondo dell’Opéra: «Microcosmo di infinite possibilità che permette tutte le sperimentazioni ». La metafora di Loyrette è azzeccata. E consegue l’affermazione che dal 1860 ai primi anni del Novecento l’Opéra fu il centro focale nel lavoro di Degas.
Si potrebbe usare una definizione di Edouard Glissant e dire che l’Opéra è il tout-monde di Degas. Oltre a consentirgli sperimentazioni inusitate, essa diventa spazio di conflitti chiaroscurali che hanno anche una valenza esistenziale, e luogo dove si studiano i movimenti del corpo e la verità dei gesti, ovvero intreccio “aberrante” di corpi e prospettive, sottolinea il curatore. Degas è l’artista che forza baricentri e mette alla prova razionalità di fughe e continuità di spazi. Così anticipa l’élan vital bergsoniano: non a caso, attrae e convince Paul Valéry, al quale Degas spiegò che l’arte è convenzione, vale a dire, quanto di meno naturale possa uscire da mani d’uomo. Difende l’idea che l’artificio, il suo essere falso rispetto alla natura, è la strada maestra dell’arte per arrivare alla verità. E se guardiamo le opere di Degas che girano “attorno” al milieu musicale e al suo teatro (in mostra c’è un grande modellino in scala con la sezione tridimensionale dell’edificio), ci accorgiamo che il vero miracolo che l’artista compie risiede nella capacità di tenere insieme il tema, l’umanità di chi lo incarna, il mistero di una realtà che muore nella propria oggettività e risorge, come in un’aria musicale, dalla visione metamorfica dell’artista. Sono, le fibre di questa pittura, spugne che trattengono e trasudano quell’esperienza che si perde nel compiersi dell’istante vitale e nell’avvento di quello successivo. In questo mondo-teatro – per dirla con Baudelaire – «si attende sempre, sempre invano, l’Essere dalle ali di velo».
Degas, sostiene Loyrette, ha fatto del proprio atelier la «sua Opéra». Ma la passione musicale gli era stata trasmessa dal padre, Auguste, che al lunedì teneva un salotto musicale a casa propria. Raffinato, amante della letteratura e dell’arte, è il primo mentore del figlio Edgar. L’altro sarà Gustave Moreau, che il giovane artista conosce durante il soggiorno all’Accademia di Francia a Roma e che lo “svezzerà” alla musica e all’arte. Ma in un certo senso l’esperienza di Degas nella musica e nel balletto è in contro- tempo alla stagione dorata dei fasti romantici, quella dei decenni centrali del secolo. Con la caduta dell’impero, comincia il declino anche musicale di un’epoca, come ha scritto lo storico della danza Ivor Guest. Ma questa decadenza non sembra toccare Degas, che anzi nella sua pittura cerca di trattenere quella sostanza che si sfalda: formidabili i quadri dell’Orchestra dell’Opéra (1870) e dei Musicisti (1872-1873).
Una celebre frase di Marx, diventata il titolo di un fortunato saggio del sociologo Marshall Berman – «Tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria » – si realizza a contrario nella pittura di Degas: nella fuga delle particelle elementari del colore che anticipano certe sfocature informali e la sfigurazione baconiana (si veda l’incredibile movimento-fermo immagine della Ripetizione di canto del 1869). E persino un quadro come il ritratto di Mlle Fiocre protagonista del balletto La Source (1867-1868) nella sua varietà di registri tra figure, primo piano col cavallo che si abbevera, rocce sullo sfondo che hanno la ruvida scabrosità di quelle courbettiane, ci fa capire quale ventaglio di mezzi e sensibilità si manifestino nell’arte di Degas.
Degas era un uomo di teatro, scrive Loyrette. Non fu mai un musicista, anche se provò a cimentarsi col violino «a differenza del suo mentore Gustave Moreau, che sapeva leggere una partitura e cantare arie difficili». Ma certamente fu un virtuoso delle dissonanze pittoriche (che praticò anche nella fotografia e nella scultura). Non si deve, perciò, commettere l’errore di considerare Degas un pittore melomane come, per esempio, si dice dei preraffaelliti che sono pittori letterari. Degas ha scelto un mondo cui riferirsi, ma l’obiettivo è uno soltanto: rendere verosimile ciò che secondo l’ottica non lo sarebbe. Ingannare l’occhio, è il suo fine.
Il dipinto dei giovani spartiati che compiono esercizi ginnici, quadro singolare degli inizi che risente degli studi di formazione di Degas sui greci e i rinascimentali, è opera “teatrale” che egli tenne con sé fino giorno della morte; le giovani spartiate – le future madri che, per la selezione eugenetica dei migliori, sacrificheranno sul monte Taigeto (visibile sullo sfondo) i propri figli imperfetti – stanno diritte come fusi e sfidano i loro coetanei. Hanno nasi retti e taglienti, da antiche statue greche, ma, scrive Loyrette, quando vent’anni dopo Degas realizza la scultura della Piccola ballerina di quattordici anni, che scatena i critici misogini e razzisti della Francia coloniale, non si dimentica dei suoi inizi e rappresenta quella ragazzina del popolo col naso rivolto all’insù come se sfidasse il giudizio di una opinione pubblica prevenuta. Ma Degas pensa ad altro e lancia un messaggio chiaro: tutto nasce dal nostro senso dell’imperfezione.