«Non si può cantare in tutti i cortili». Gira e rigira, la morale potrebbe ridursi qui: alla vecchia massima di nonna Caterina Zaffiro vedova Pansa, che al bambino Giampaolo insegnava di non iscriversi ad alcun partito preso. Oppure – più nello specifico – ai 4 principi del revisionista resistenziale: 1) le vendette dei vincitori sono state così sanguinarie da sporcare senza rimedio la buona causa dei partigiani; 2) la buona causa della Resistenza non fu la bandiera di tutti i partigiani, qualcuno combatteva per altri fini; 3) i fascisti della Repubblica Sociale non erano tutti mostri, carnefici, torturatori; 4) non si può descrivere una guerra civile ascoltando solo la voce di chi ha vinto. Ma c’è caso che il nuovo libro del giornalista piemontese, in uscita il 20 maggio, non procuri i soliti «mal di Pansa» soltanto alla sinistra.
Il revisionista (Rizzoli, pp. 484, euro 22), nel suo intento di rinvenire nell’autobiografia dell’autore le tracce controcorrente fin dalla più precoce infanzia, rischia infatti di offrire il fianco ancor più scoperto ai già molti nemici; che presumibilmente andranno presto a cercare episodi a smentita. Non che Pansa se ne faccia un cruccio, e non solo per la consolazione di centinaia di migliaia di copie vendute con la sua serie di libri sulla guerra civile italiana, che dura con cadenza annuale dal 2003: «A 73 anni e dopo 40 di giornalismo sono diventato sovranamente indifferente a tutte le etichette che mi vogliono mettere addosso. L’unica che rifiuterei è d’essere falsario o terrorista. Per il resto c’è spazio».
Anche per l’accusa di revisionista? «Ma certo! All’inizio mi dava un po’ fastidio, come quando mi chiamavano "rovescista"... Per definirmi avevo inventato il termine un po’ burocratico di "completista". Ma mi è passata presto, tanto che uso il revisionismo quale vanto fin dal titolo del libro, e per due motivi: il primo è prendermi beffa dei trinariciuti, le vestali delle bugie che la sinistra ha costruito per decenni intorno alla cosiddetta guerra civile; il secondo è fare omaggio alle moltissime persone che mi sono grate per aver dato loro voce».
Però sembra passata l’epoca in cui tiravano le pietre ai revisionisti... «È vero, ormai esiste un’opinione pubblica sempre più maggioritaria che richiede storie della nostra "guerra interna" più vere ed equilibrate. Ma intanto le pietre (spero solo verbali) continuano a tirarle: il film sul Sangue dei vinti ora nelle sale, per dare un’idea, è uscito solo in 40 copie, mentre il Bellocchio di Vincere ne ha in circolo 300... E in una sala di Roma dove si proiettava il mio film c’è stato un assalto dei centri sociali. No, non è per niente comodo fare il revisionista neppure oggi e soprattutto non vedo in giro esempi che possano affiancarmi, come sarei felice che avvenisse. L’egemonia culturale comunista esisteva eccome, e dura ancora pur se il partitone rosso non c’è più».
Comunque i revisionisti passano per essere destrorsi, perciò oggi che vincono le destre dovrebbe essere campo aperto per loro. «Le destre? Ma se l’unico partito che dovrebbe fare una revisione della guerra civile, ovvero quello di Fini, di quei tempi non ne vuole più sentire nemmeno parlare!».
Lei riferisce che un professore, all’università, giudicò il suo metodo secondo un principio giuridico: «Audiatur et altera pars», ascoltare anche la parte avversa. «L’essenza del revisionismo è proprio questa e tale principio posso dire di averlo sempre avuto in testa. Si tratta di un metodo storiografico, ma prima ancora di un precetto civile. Quando ho cominciato a fare il cronista, il caporedattore mi esortava a parlare sempre con persone di opposte vedute, sennò non avrei mai capito la verità dei fatti. Si tratta di un principio che ho cercato di applicare».
Qualche errore però l’ha commesso, e lo ammette anche nel libro: una debole difesa del commissario Calabresi, un articolo contro Otello Montanari – il comunista «pentito» del triangolo rosso... «Nel caso Montanari ho sbagliato, certo, ma nel volume cerco di spiegare perché: mi lasciai influenzare da una dietrologia politica. Sul caso Calabresi invece non solo ho le carte pulite, ma pure le mani nette: non ho firmato il proclama di giornalisti e intellettuali contro di lui».
E sul terrorismo in generale, quando lei lavorava a «Repubblica » che ammiccava alle Br?«Fui sempre contro il terrorismo, posso smentire chiunque dica il contrario. Tanto che il vero scoop della mia vita è stato dimostrare che le Br esistevano e che erano rosse. E l’Unità e l’Avanti mi accusavano di essere visionario».
Dopo la Resistenza, su quale periodo della storia italiana è urgente fare revisionismo, secondo lei? «La storia dei motivi per cui è finito il Pci: la svolta della Bolognina viene così a caso? Occhetto era tanto lungimirante da cambiare il nome del partito poco dopo la caduta del Muro? Che cosa si nascondeva davvero nel corpo del partitone? Altro grande argomento: le stragi. Su Bologna dobbiamo accontentarci della versione attuale, che fa sempre più acqua? E piazza Fontana?».
Dunque il prossimo libro sarà «Il complottista»?«No no, sarà un’altra cosa sulla guerra civile, ho già in mente cosa ».
Sembra che le donne siano più «revisioniste» degli uomini. Conferma? «Hanno memoria più forte. Delle 2500 lettere ricevute dopo Il sangue dei vinti, almeno l’80% erano di donne. Non solo perché l’Italia è anagraficamente delle vedove, ma perché il mondo femminile ha più cura dei ricordi familiari».
Cosa ha portato di buono il revisionismo all’Italia? «Ha insegnato che non si deve credere a verità presentate come una rivelazione. Non fidatevi, ragionate con la vostra testa, documentatevi. Poi tirate le conclusioni».
Allora certe destre, che fondano tutto su promesse e immagine, dovrebbero aver paura di lei... «Infatti alcuni dei loro capi non mi amano affatto».
I revisionisti sono dissacranti, lei sostiene. Dunque i cattolici non possono esserlo? «Sul Padreterno certamente no, ma su come lavora la Chiesa assolutamente sì. Anzi, un cattolico non solo può, ma deve mettere in questione le vulgate di chi detiene le leve del potere. E, a proposito del dovere di sentire l’altera pars: i cattolici lo fanno molto spesso».