domenica 17 luglio 2022
«Sul Dio biblico noi possiamo contare. Sarebbe un tragico inganno non vedere che il dibattito su ciò che ci guarisce si risolve solamente nell’apertura a ciò che ci salva». Il nuovo "Vita e Pensiero"
Tawy, 24 anni, porta sulle spalle il padre a vaccinarsi in Amazzonia

Tawy, 24 anni, porta sulle spalle il padre a vaccinarsi in Amazzonia - Instagram/Erik Jennings Simoes

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Proponiamo in queste colonne ampi stralci del contributo del cardinale José Tolentino Mendonça al nuovo numero di 'Vita e Pensiero', il bimestrale di cultura e dibattito dell’Università Cattolica. Per la sezione 'Spiritualità' il vescovo norvegese Erik Varden riflette sullo scandalo degli abusi e l’opera di riparazione, mentre nel 'Focus' riflettono su uomo e macchina Luca Antonini, Antonella Sciarrone Alibrandi, Luca Peyron e Umberto Bottazzini. 'L’intruso' è una testimonianza della scrittrice dello Zimbabwe Tsitsi Dangarembga.

Una domanda inevitabile che ci accompagna in questo tempo di prova aperto dalla pandemia è: «Come sopravvivere al male? ». E con questa domanda non penso in primo luogo alla sopravvivenza fisica, anche se i numeri della mortalità associata al Covid-19 sono impressionanti. Penso soprattutto a quell ’altra forma di sopravvivenza con cui ci confrontiamo quando, sotto l ’impatto di una sofferenza imprevista, di un ostacolo che ci si para innanzi, o di una prova alla quale non eravamo preparati, la nostra abituale esperienza del mondo deve trovare un ’altra configurazione. In momenti come questi, siamo chiamati ad attivare, o a riscoprire, le risorse spirituali e umane. Perché parlare di risorse? L ’etimologia latina del termine “risorsa ” e collegata al verbo resurgere, risorgere. Per noi cristiani questo è un nesso particolarmente significativo, dal momento che anche la parola “risurrezione ” viene dal medesimo verbo. Dove c ’è la morte, s ’impone l ’interrogativo sul risorgere. La morte è universale, lo sappiamo bene, e ci viene drammaticamente incontro quando meno ce l ’aspettiamo. Non c ’è esistenza al mondo che non la percepisca, in un momento o nell ’altro del suo percorso, come un impegno ineludibile. Per questo, nei momenti di crisi, nei passaggi dilemmatici che ciclicamente la storia ci apparecchia, nell’esperienza del trauma e del lutto, negli scuotimenti sismici delle certezze che fino a quel momento sembravano regolare la morfologia della vita, siamo chiamati a entrare in contatto di nuovo, e forse con maggiore intensità, con le nostre risorse spirituali e umane. Sono queste, infatti, gli strumenti primari di soccorso, i punti di appoggio, le leve preziose per rendere operativa la speranza. È interessante constatare come venga dal campo della psichiatria e della psicoterapia contemporanee un endorsement che valorizza il ruolo di queste risorse. Si veda, per esempio, quello che dice lo psichiatra e psicanalista francese Boris Cyrulnik, che si porta sulle spalle il peso del martirio dei suoi genitori perpetrato dalla macchina di morte dei nazisti quando lui aveva appena sette anni. In un’intervista che ha concesso a una rivista spagnola, a pandemia già iniziata (“XL Semanal”, 21 aprile 2020), egli ricordava due cose fondamentali: la prima e che i traumi fanno parte della vita dell’essere umano, e per far sì che questa aggressione non venga a bloccare la vittima per sempre e decisivo, tra gli altri aspetti, rinforzare le sue risorse interne, in particolare quelle spirituali. La seconda cosa, che mi pare anche di maggiore attualità, e che dopo ogni catastrofe normalmente affiora una rivoluzione culturale. La vita si riorganizza per risorgere dopo il disastro: deve farsi strada un’altra maniera di vedere il mondo. E la pandemia ci trasferisce effettivamente a un nuovo livello della storia. Non possiamo credere di poter ritornare al mondo di ieri e che la situazione si risolverà semplicemente con qualche ritocco al sistema. Come chiaramente dice papa Francesco nelle primissime pagine dell’enciclica Fratelli tutti, questo sarebbe «negare la realtà». Non è piccolo compito quello che generazionalmente ci spetta, di subire un mutamento d’epoca e di esserne allo stesso tempo protagonisti, con tutto ciò che questo significa. Mi viene alla mente la coraggiosa riflessione sulla ricostruzione materiale e spirituale dell’Europa che faceva Simone Weil nei primi mesi del 1943, quando si cominciava a presentire la disfatta di Hitler. Era evidente per la filosofa che non sarebbe stata sufficiente una vittoria militare per un nuovo, effettivo inizio, ma che si imponeva un ripensamento globale su quanto era avvenuto. La sconfitta diventa vittoria soltanto se ci apre a un nuovo radicamento, a un profondo cambiamento di civiltà. Anche il nostro presente si vede più che mai convocato a un ripensamento. L’originale concomitanza tra le parole “salute” e “salvezza” ci suggerisce di allargare il nostro orizzonte di coscienza a ciò che sta realmente in gioco in quest’ora. La pandemia la si gestisce su un fronte sanitario. Ma non in maniera esclusiva. Sarebbe un tragico inganno non vedere che il dibattito su ciò che ci guarisce si risolve solamente nell’apertura a ciò che ci salva. In questo senso, l’approfondimento del cammino ecumenico rappresenta un’esigenza urgente del momento presente. Riflettendo sul tema proposto, le risorse spirituali e umane delle religioni ebraica e cristiana che possono essere presentate come strumenti per affrontare questa prova che è la pandemia, vorrei concentrarmi, seppur brevemente, su tre riscoperte fondamentali che ci coinvolgono tutti. Il primo punto si ricollega in qualche modo a ciò che Boris Cyrulnik pone alla base della resiliente capacita di reagire ai traumi e alle difficoltà: la “teoria dell’attaccamento”, che dimostra quanto sia essenziale lo schema dell’attaccamento che il bambino sviluppa (o purtroppo non sviluppa) in rapporto con le figure parentali. Genitori amorevoli, premurosi e presenti generano figli pieni di fiducia. Questa stessa “teoria dell’attaccamento” (formulata per primo da John Bowlby) viene applicata da Cyrulnik alla relazione con Dio. Ora, anche se dobbiamo stare ben attenti a non ridurre Dio alla figura di uno psicoterapeuta e la religione a una forma di benessere emozionale, questo ci rammenta una risorsa teologica fondamentale delle religioni bibliche: l’affidabilità di Dio. Il Dio biblico è un Padre (e, narrativamente, anche una Madre) su cui noi possiamo contare. «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai», leggiamo in Isaia 49,15. E, allo stesso modo: «Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso» (Is 49,8), citazione che Paolo riprende nella sua Seconda Lettera ai Corinzi (6,2). Nei momenti di prova come quello attuale, può insinuarsi nel cuore umano il dubbio originale, quello che il serpente suggerì nel giardino dell’Eden: che il mistero di Dio sia ambivalente e nasconda una minaccia. Ora, la tradizione biblica, tanto ebraica quanto cristiana, smonta questa presunta ambivalenza e rivela un Dio credibilmente intento alla salvezza dell’Essere Umano. Nella Statio Orbis presieduta da papa Francesco quel 27 marzo 2020, il testo proclamato era tratto dal Vangelo di Marco (4,35-41): l’episodio di Gesù che dorme nella barca mentre i discepoli si vedono naufragare. «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (v. 38) è la domanda che gli fanno. La risposta di Gesù viene ad attestare l’affidabilità di Dio. Come dice il papa, «non è tanto credere che Tu esista, ma venire a Te e fidarsi di Te», perché «con Dio la vita non muore mai». Nel mezzo della tempesta, Gesù esorta non al timore ma alla fede. Gesù contrasta il trionfo della paura in noi: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v. 40). Allo stesso tempo, però, ci fa capire che l’inizio della fede non è l’autosufficienza, ma il «saperci bisognosi di salvezza». (...) Mi piacerebbe concludere parlando di un’immagine, visto che un’immagine vale più di mille parole. La stampa internazionale e i social network hanno dato evidenza a una fotografi a scattata da Erik Jennings, un medico che da anni lavora in Amazzonia. La foto testimonia il viaggio nel Pará, in Brasile, di Tawy Zoé, un indigeno di ventiquattro anni che carica sulla schiena l’anziano padre per portarlo a vaccinarsi. Tra andata e ritorno il viaggio è durato dodici ore. Il padre è come seduto su uno scampolo di stoffa, che il figlio stringe con le mani e tiene ancorato alla propria fronte. Possiamo immaginare quale sia stato, per entrambi, lo sforzo. Ma il loro sguardo possiede la serenità di chi sa di fare la cosa più giusta. Ed essi contribuiscono in quel modo a dare una risposta inequivocabile alla domanda che tante volte ritorna durante questa epidemia: «Come sopravvivere al male?».

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