Padre Costantino Ruggeri. presbiterio e vetrate del santuario del Divino Amore, Roma, 1999 - Fondazione Frate Sole
È ancora importante Costantino Ruggeri? Da sola l’immensa mole di interventi – tra progetti integrali di chiese, adeguamenti e oggetti liturgici, migliaia di metri quadri di vetrate per grandi santuari come chiesine di quartiere in tutta Italia e in Europa, Africa e Giappone – dovrebbe garantire al frate francescano un ruolo nella storia dell’arte in ambito sacro e liturgico. Eppure a poco più di dieci anni dalla morte la sua immagine sembra essersi offuscata e il suo lavoro sempre meno presente.
Dunque è ancora importante Costantino Ruggeri? È la domanda da cui è partita Maria Antonietta Crippa alcuni anni fa per riaprire il dossier attraverso un percorso di ricerca che ora approda a un volume la cui importanza non può essere sottostimata: Padre Costantino Ruggeri. Artista francescano (Silvana, pagine 256, euro 28,00), realizzato con la collaborazione e il sostegno della Fondazione Frate Sole (presieduta dall’architetto Luigi Leoni, storico collaboratore del francescano), che a Pavia ne ha in carico la custodia della memoria e dell’opera.
Il libro, a più firme, costituisce il primo tentativo di leggere in maniera organica una personalità complessa, generosa e strabordante, dagli interessi molteplici (è stato pittore, scultore, artigiano, architetto sui generis, poeta...), fornendo, spiega la Crippa, «l’attrezzatura indispensabile che consenta di far apparire la grandezza umana e d’artista di padre Costantino Ruggeri».
I capitoli tracciano un percorso biografico (la formazione, i legami con architetti e artisti, da Sironi a Figini e Fontana ma anche Le Corbusier) e artistico, dalle prime pitture murali a Busto Arsizio, passando per il problema dell’architettura fino all’opera fotografica, oltre a un repertorio dei lavori e un’antologia dei testi. Il libro non è una mappatura del totale ma un quadro in cui inscrivere la ricerca a venire.
I risultati sono di particolare interesse, non solo perché testimoniano la qualità dell’opera di Ruggeri, ma l’essenzialità e la necessità della sua eredità nel dibattito contemporaneo sull’arte nella Chiesa cattolica. Prima di tutto l’arte di padre Ruggeri – autorevolmente personale e radicata nel linguaggio maturato dalle avanguardie – è quella intuizione, facilità e felicità a cui si appellava Paolo VI nel Discorso agli artisti (e padre Ruggeri è figura “montiniana” anche nella misura in cui raccorda in sé la duplice vocazione di artista e sacerdote).
Padre Costantino è naturalmente moderno. Nel suo lavoro manca del tutto la retorica pietistica dell’arte sacra, la pletora della narrazione, l’automatismo del cliché. Lo vediamo già nelle Storie francescane di Busto Arsizio, dipinte a 24 anni nel 1949: il santo è duro come i poveri a cui presta soccorso: la sua bellezza è nella carità. Nessun sdilinquimento oleografico e nemmeno miracoli: Francesco è uomo che agisce. I frati ne furono sconvolti.
Tutto questo è possibile perché Ruggeri è artista – e dunque l’arte è prima di tutto rapporto con “sorella materia” – e religioso consapevole della posta in palio: «Capisci che la chiesa di pietra può diventare un ostacolo alla Chiesa viva formata dalla comunità dei fedeli? – dice nel 1964 all’amico padre Nazareno Fabbretti – Certe chiese moderne (chiese alla moda e basta) possono compromettere per lungo tempo la penetrazione evangelica nella società contemporanea». L’immagine sacra e lo spazio della chiesa modellano la fede del singolo e della comunità: ogni scelta estetica è densa di conseguenze.
Padre Costantino Ruggeri. "Cella n. 13", 1974 - Fondazione Frate Sole
Per padre Costantino la chiesa, parente più grande della casa, è un “habitat”: «Dopo vent’anni di lotta contro la paccottiglia pseudoliturgica – scrive nel 1978 – mi sono reso conto che per salvare queste umili e preziose “cose” [ossia l’arredo e gli oggetti per la liturgia, ndr] e farle vivere in un habitat adeguato con tutta la loro intensità e pienezza di “segni”, occorrevano anche chiese nate con esse. E ho cominciato a costruirle. Ho così avuto la conferma a quanto avevo sempre pensato: che deve bastare un segno, non una manipolazione, che diventerebbe contraffazione, per rendere liturgia viva anche minime suppellettili».
I luoghi liturgici sono i poli che aggregano lo spazio, mentre «l’unità spaziale interna – scrive la Crippa – era ottenuta dalla mobile intensità luministica, arricchita da trasparenze, delle ampie vetrate, con effetti colorati portati su poli liturgici, soffitto, pavimento e panche, persino persone ». La luce delle vetrate è il liquido amniotico che ossigena tutto ciò che in questi spazi vive. Davvero, in questo senso, è spirito, è ruah.
Ruggeri riflette sul tema dello spazio anche attraverso una serie di opere chiamate Celle, fragili sculture di cartone e altri materiali poveri. Per il frate sono «segni umili e assoluti di uno spazio nascente, espressivo dell’anima e ospitale del cuore», «spazio mistico più che sacro». È quest’ultimo un punto che Maria Antonietta Crippa sottolinea come dirimente: lo spazio mistico – debitore dell’espace indicible di Le Corbusier – è «sfuggente alla complessità del sacro universale ma impegnato ad affermare l’infinito mistero di presenza umanodivina di Cristo nel mondo».
Padre Costantino Ruggeri. "Forma Bianca", 1967 - Fondazione Frate Sole
Mistico: ossia tutt’altro che astratto. «La fiducia nella propria corporea sensibilità sinestetica – scrive la Crippa – favorì il suo corpo a corpo, gioioso e carico di emotività, con i materiali [...] In decori e suppellettili e nell’intero organismo architettonico, agglomerato sensoriale sempre diverso, egli affermò “il più di senso” con “un meno di ricercatezza materiale” secondo sensibile, persino naturale contiguità del corpo umano con le cose. Si giunge per questa via al tema della francescana povertà raggiunta con essenzialità di mezzi e di segni, emersa in una sintesi architettonica in bilico tra spogliazione ed esultanza, tra povertà e gloria, di Dio ma anche dell’uomo». E ancora: «Padre Costantino si tenne lontano da estremismi e ideologiche aridità perché aveva scoperto il filone aureo della bellezza nel non smaterializzato bensì densamente materico “quasi niente” al quale l’artista dà la dimensione dell’infinito. La sua intenzione artistica, indifferente a un’utopica spiritualità, corrispose infatti alla logica dell’incarnazione ». «Povertà è essenzialità, eticità, esaltazione dello spirito – scriveva padre Costantino – Anche l’oro è povertà, se usato nella verità. Le “cose” sono poesia. Non trasformiamole in formule».