Alberto Savinio, “Tombeau d’un roi maure”, 1929
Le innumerevoli mostre, feste, manifestazioni, gli scandali più o meno mondani, le rappresentazioni teatrali, i film, le pubblicazioni di tutti i generi non hanno mai smesso di alimentare la leggenda surrealista per decenni. D’altra parte il Surrealismo con la sua pratica dell’automatismo psichico e il suo attingere all’universo onirico ha sfrondato l’arte di tutte quelle deviazioni e collateralità, che mediavano il contatto con la causa prima della creatività, cioè l’inconscio, formidabile generatore e serbatoio di simboli, dai quali trae linfa ogni forma d’arte.
Il movimento nasce cento anni fa in Francia e per celebrare l’avvenimento è stata allestita alla Fondazione Magnani Rocca di Mamiano di Traversetolo, nei pressi di Parma, una mostra che intende anche riflettere sul rapporto con l’esperienza del nostro paese così come recita il titolo dell’esposizione “Il Surrealismo e l’Italia” (fino al 15 dicembre, catalogo Dario Cimorelli Editore), curata da Alice Ensabella, Alessandro Nigro e Stefano Roffi, attraverso il ricorso a oltre 150 opere.
Il periodo eroico del Surrealismo, che esalta il non conformismo, la pratica del delirio, l’arbitrarietà, la rivolta, la libertà dello spirito, il sogno in tutte le sue forme pure o procurate, e che professa il meraviglioso come unica forma di bello poetico, l’atto antiborghese, il disfattismo, la critica al patriottismo (Aragon aveva scritto: “Noi siamo quelli che non si rifiuteranno mai di dare la mano al nemico”), fino a gridare pubblicamente “Viva la Germania! Viva la Cina!”, oppure “Abbasso la Francia”, come fece Michel Leris durante un famoso parapiglia scatenato dai Surrealisti nel corso del banchetto in onore di Saint-Pol-Roux, rischiando il linciaggio, il periodo eroico del Surrealismo, dicevamo, è quello che meglio rivela l’eredità avuta dal Dadaismo. E anche se le radici del Surrealismo in Francia, che sono varie e complesse, a partire da quelle abbondantemente ribadite della Metafisica, è proprio tramite il movimento Dada che il Surrealismo ha mutuato qualche lezione delle avanguardie precedenti. Come quella dello scardinamento della convenzione ottica, derivata dalla scomposizione cubista e, in primo luogo, nonostante il segno ideologico diverso, del Futurismo con la sua pratica della provocazione e dello scandalo tipica della révolution surréaliste.
In ogni caso i fermenti del Surrealismo sono già presenti quando i “Signori Dada” si riuniscono al caffè Certa, immortalato nel 1924 da Louis Aragon nel suo Contadino di Parigi: Pierre Reverdy, Paul Eluard, Francis Picabia, Max Ernst circondano i tre fondatori di “Littérature”, Breton, Aragon e Soupault. Altri non tarderanno a raggiungerli: Man Ray, Marcel Duchamp, Robert Desnos, Roger Vitrac. E tutti aderiscono senza riserve, anche se in realtà le loro interpretazioni divergono tanto da provocare scomuniche, liti, epurazioni, a quel Manifesto che descrive una rappresentazione del mondo fondata sulla supremazia del sogno, dell’immaginario, dell’insolito, del mistero, della follia liberatrice, dotandosi di un pantheon con i suoi santi e i suoi martiri: Arthur Rimbaud, Germain Nouveau, il doganiere Rousseau, Isidore Ducasse, conte di Lautrémont, il marchese de Sade.
In pittura e in scultura la lezione surrealista si diffonde in Europa, raggiungendo il Belgio, l’Inghilterra, la Cecoslovacchia, la Spagna e via via i paesi del Nord e dell’est Europa, per poi espandersi oltreoceano, soprattutto dopo l’esilio” americano determinato dalla Seconda guerra mondiale.
La mostra apre una finestra sul Surrealismo internazionale attraverso le opere dei maestri del movimento storico contraddistinte da una profonda eterogeneità estetica e formale e dalla varietà dei linguaggi utilizzati, indifferentemente astratti o figurativi, che vanno dalla pittura alla scultura, dal collage alla fotografia, dall’assemblage al ready-made agli objets trouvés. È qui che troviamo importanti lavori di Magritte, Dalì, Man Ray, Ernst, Masson, Mirò, Tanguy, Duchamp, Matta e naturalmente de Chirico, che ha spianato quella strada che poi il Surrealismo ha lastricato, riconosciuto da Breton come uno dei padri del movimento prima di rinnegarlo nel 1925.
E il Surrealismo italiano? L’interrogativo non è nostro, ma dei curatori della mostra che si chiedono: “È esistito, o si può propriamente parlare, di un Surrealismo italiano?”. In effetti il Surrealismo in Italia non ha una vera e propria storia prima del 1940 se escludiamo i notevoli precedenti degli anni Dieci con il visionarismo perfido e notturno di Alberto Martini e la produzione favolistica di Alberto Savinio, il più surrealista di tutti i pittori italiani. D’altra parte la cultura italiana degli anni Venti e Trenta così chiusa in sé ed in larghi strati tutta assorta a rimirarsi l’ombelico dei valori italici col Novecento, non poteva avere occhi né orecchie per le proposte surrealiste, che intendevano per rivoluzione dello spirito una rivoluzione del tutto opposta a quella della penisola, protesa verso l’Impero che era l’unico suo “sogno”.
La mostra, quindi, presenta i protagonisti della scena surrealista italiana, le sue tangenze con il gruppo francese e soprattutto la sua originalità e indipendenza attraverso l’individuazione di due tendenze principali: da una parte quella di una serie di artisti che pur ispirandosi ai maestri del movimento francese hanno adottano pratiche artistiche nuove (tra questi Enrico Baj e Ugo Sterpini dei quali Breton ospita alcuni testi nel suo Le Surréalisme et laPeinture nell’edizione del 1965), dall’altra quella di artisti, quali Fabrizio Clerici, Leonor Fini, Stanislao Lepri, Colombotto Rosso, che appartengono a un filone fantastico e visionario che rimanda più specificatamente all’immaginario di de Chirico e Savinio.