Basso Cannarsa
I turisti di solito si fermano più in basso, nella spianata un po’ anonima di piazzale Michelangelo. Anche da lì si può ammirare il panorama della città, certo, ma i fiorentini preferiscono spostarsi più in alto, seguendo la strada che da Oltrarno porta fino allo scalone monumentale che nel XIX secolo ha in parte ridisegnato la scenografia della collina. «San Miniato al Monte appartiene alla vicenda esistenziale di molti – sintetizza padre Bernardo Gianni –. Si viene qui all’inizio o alla fine di una storia d’amore, ci si sofferma davanti alla facciata della basilica oppure si cammina in solitudine tra le tombe del cimitero delle Porte Sante. È un luogo che genera e propizia una capacità di visione tutta particolare, irripetibile. Anch’io me lo sono gustato tante volte da ragazzo, negli anni in cui ero ancora lontano dal Signore. Lo ammetto senza problemi: da giovane non ero affatto un tipo da parrocchia…».
Di San Miniato padre Bernardo è l’abate e proprio a lui, lo scorso anno, è spettato il compito di celebrare il millenario della chiesa che nel 1018 il vescovo Ildebrando volle a presidio della città. «Nel 2018 ho compiuto cinquant’anni – dice – e questo è uno dei doni più belli che ho ricevuto. Gli altri? Poter accompagnare mio padre in una morte che, per quanto dolorosa, è stata segnata da una profonda dolcezza. E poi, sì, ricevere l’invito a predicare gli esercizi alla Curia Romana». Da quei giorni di raccoglimento, ispirati alla silenziosa custodia che San Miniato esercita su Firenze, è nato un libro pubblicato da San Paolo in collaborazione con la Libreria Editrice Vaticana. Il titolo, La città dagli ardenti desideri, viene da un verso della poesia che Mario Luzi dedicò a San Miniato richiamandosi al magistero civile e spirituale del sindaco Giorgio La Pira, che per licenza viene condensato in “La Pira”: come se fosse non una persona, ma una categoria del pensiero. O, meglio, un metodo, secondo una definizione che a padre Bernardo è molto cara. «Se davvero vogliamo essere fedeli alla tradizione di umanesimo cristiano che da Petrarca porta allo stesso La Pira – afferma – dobbiamo evitare di trasformare quel patrimonio in un monumento intoccabile. Dobbiamo adottarne il metodo, semmai, applicandolo al tempo in cui viviamo».
Per arrivare al chiostro di San Miniato anche padre Bernardo ha preso la strada più lunga, quella che dalla militanza politica lo ha portato a diventare monaco, poi priore e oggi abate. «La tappa decisiva – racconta – fu al monastero di Santa Maria a Rosano, la notte di Natale del 1992».
Che cosa c’era andato a fare, se non era un tipo da parrocchia?
Diciamo che seguivo una curiosità di tipo estetico e antropologico. A Rosano, nel territorio di Rignano sull’Arno, vive da tredici secoli una comunità benedettina femminile. L’edificio stesso, nella sua semplicità romanica, è una specie di San Miniato in miniatura. A me, che all’Univeristà di Firenze avevo assaporato il fascino e la complessità del Medioevo, sembrava una buona occasione di studio».
Andò da solo?
No, con me c’era un mio amico, Tommaso Fattori, che è ancora oggi uno degli esponenti più noti della sinistra fiorentina. Quella sera, quando entrammo in chiesa, eravamo entrambi non credenti. A me, però, accadde qualcosa.
Che cosa?
Non saprei spiegarlo. Di sicuro arrivai a Rosano con il cuore già in fermento. C’era stata da poco la fine di un rapporto sentimentale durato tre anni. Proprio con quella ragazza, inoltre, avevo preso a frequentare un gruppo di ragazzi disabili: per me era stato il primo incontro reale con la sofferenza. A tutto questo si univano le letture di quegli anni, favorite da studiosi come Mario Martelli, Cesare Vasoli, Claudio Leonardi. Grazie a loro imparai ad apprezzare la vastità di interrogazione del Medioevo e, insisto, dell’umanesimo fiorentino in una prospettiva che, con il passare del tempo,si era fatta sempre meno intellettuale e sempre più integrale, interiore.
Fu una conversione improvvisa?
La veglia di Natale a Rosano fu l’inizio, non ci sono dubbi, ma la conversione vera e propria maturò nei mesi successivi, mentre lavoravo alla tesi di laurea su Coluccio Salutati. In lui, come negli altri autori che mi avevano accompagnato in quegli anni (Agostino, Tommaso d’Aquino, il Petrarca del Secretum, Leonardo Bruni), ritrovavo la centralità della mensura, e cioè della misura, virtù umanistica per eccellenza. Per me indica l’impegno di ridare dignità all’uomo, restituendogli quella responsabilità che lo rende protagonista della storia e, nello stesso tempo, permettendogli di abbracciare tutta la sua fragilità, tutta la sua inquietudine debolezza.
Che cosa la colpì di più in quella notte?
La perfezione della liturgia, la limpidezza del canto gregoriano: era come una coreografia che permetteva al lato oscuro della luna di affacciarsi dalla penombra.
Parliamo di Medioevo e lei cita i Pink Floyd?
E perché no? Quel che accadde quella sera fu proprio la scoperta di una Chiesa sottratta a ogni logica di evidenza e di immediata utilità. Era il manifestarsi di un cristianesimo non funzionale ad altro che non fosse l’esperienza della fede, e quindi “pastorale” in senso autentico. Per parafrasare Margherita Guidacci, mi pareva che finalmente fosse possibile credere l’impossibile. Tutto, quella notte, era visitato da un sentimento di gratuità, di bellezza, di potenziale accoglienza. Una parte di me continuava a fare resistenza, come se stessi assistendo alla rievocazione di una fiaba: commovente, d’accordo, ma pur sempre una fiaba. Non capivo che, al contrario, ero io il bambino e, come un bambino, esitavo davanti a una porta che stava per spalancarsi e che non si sarebbe più richiusa.
Era il germe della chiamata monastica?
Credo di sì. Per la prima volta mi confrontavo con una dimensione di paradossale inutilità che agisce nell’intimo del cuore: ti libera e, nel momento stesso in cui ti ha liberato, ti permette di prenderti cura degli altri. La conversione è sempre conversione dello sguardo, come insegna Ugo di San Vittore: ubi amor, ibi oculus. È l’amore che cambia il modo di guardare alla realtà e di incidere su di essa.
Anche se si vive in monastero?
Anche se si vive in monastero, sì. Oggi la comunità di San Miniato si compone di undici fratelli, tra cui l’abate emerito Agostino, che ha 97 anni, e padre Nicola, che con i suoi 98 anni è il più anziano dell’intera famiglia olivetana. Molti di noi sono cinquantenni, ma non mancano i monaci più giovani, né i ragazzi che vengono qui per conoscere meglio sé stessi e cercare la propria vocazione. Una presenza molto importante è costituita dall’associazione La Stanza Accanto, che riunisce genitori accomunati dalla morte prematura dei figli. L’ascolto, principio biblico per eccellenza, è il criterio fondamentale della Regola di san Benedetto. Da un lato siamo invitati a seguire un misterioso maestro interiore che in ogni momento risveglia in noi la consapevolezza di essere desiderati e amati, dall’altro non possiamo ignorare l’appello che lo Spirito rivolge giorno per giorno alla Chiesa e al mondo. Giorno per giorno, ripeto, e quindi anche adesso, anche qui, sulla collina che sovrasta la città dagli ardenti desideri. Che non è soltanto Firenze, ma ogni luogo in cui gli uomini si ritrovano e si riconoscono, in cui soffrono e sperano. “Oggi è nato per noi il Salvatore”, annuncia la liturgia natalizia. E ogni giorno è quell’oggi, ogni notte per me rimanda a quella veglia.
Torniamo al rapporto tra fede e realtà.
Non potrebbe essere altrimenti. La Chiesa è sempre tenuta al discernimento e questa è la condizione che le permette di non cedere alla paura, ma di coltivare un senso di fede e di fiducia. Un monastero come il nostro, in particolare, riesce a mantenere una visione d’insieme proprio in virtù della sua posizione eccentrica: fuori dalla città eppure non in contrapposizione, lontano dal rumore della quotidianità eppure in ascolto di ogni eco che sale verso la collina. Solo così è possibile riconoscere Cristo nel povero, nello sconosciuto, nell’ospite imprevisto. È il crinale su cui la mistica si fa politica, come avviene nella tradizione delle “recluse”, le comunità monastiche femminili che sperimentano la clausura nel cuore delle città.
Quali sono le letture di un abate del XXI secolo?
Molta poesia, come sempre: Petrarca e Montale, per me irrinunciabili, e con loro Luzi. Ma amo molto anche Giorgio Caproni, Carlo Betocchi, Antonio Delfini. Tra le voci di oggi ho una predilezione per Alba Donati, nei cui versi l’elemento originario, direi quasi tellurico, della natura si intreccia con un’altissima passione civile.
E Dante?
Si è guardato intorno? Firenze, la basilica: a San Miniato la Commedia è lo spazio in cui ci muoviamo e respiriamo, è il silenzio di cui mettiamo in ascolto.