Il sacerdote e scrittore Pablo d’Ors è nato a Madrid nel 1963
«No, non è soltanto crisi della lettura: la crisi vera, la più allarmante, riguarda la parola». Pablo d’Ors lo dice con convinzione, oltre che con competenza. Nato nel 1963 a Madrid in una famiglia di intellettuali (suo nonno era lo storico e critico d’arte Eugenio d’Ors), è diventato sacerdote nel 1991, seguendo una vocazione le cui tappe, tutt’altro che prevedibili, sono ora ripercorse in Entusiasmo, il suo romanzo autobiografico in uscita da Vita e Pensiero (traduzione di Simone Cattaneo, pagine 416, euro 19,00).
el libro, e più in generale del rapporto con la lettura e la letteratura, D’Ors parlerà nei prossimi giorni a Milano, dove si trova per partecipare alle celebrazioni per il centenario della casa editrice dell’Università Cattolica. «Tutti i miei libri sono in qualche modo ispirati dall’opera di un altro scrittore – spiega D’Ors, che ricopre tra l’altro l’incarico di consultore per il Pontificio Consiglio della Cultura –. Lezioni d’illusione (ancora inedito in Italia, ndr) aveva come modello La montagna incantata di Thomas Mann, Avventure dello stampatore Zollinger si rifaceva a Siddharta di Hermann Hesse, i miei primi racconti erano fortemente influenzati dal Libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa. Per Entusiamo il mio riferimento è stato La montagna dalle sette balze di Thomas Merton. Si tratta, in entrambi i casi, della storia di una vocazione. Per me la scrittura è esattamente questo: mettersi in ascolto di una voce interiore che però non si esaurisce nella mente e si traduce subito in un’attività che definirei “manuale”. Quando comincio un nuovo libro, non parto mai dall’idea, ma la trovo strada facendo, attraverso la scrittura».
Da dove viene il titolo? Davvero l’entusiasmo è l’elemento dominante della sua vita?
«Questo non è esattamente un racconto autobiografico, ma autofittizio, come del resto tutti i miei libri. Posso dire di rispecchiarmi in ciascuno dei miei protagonisti, anche se è evidente che il Pedro Pablo di Entusiasmo mi somiglia più di ogni altro. Quella parola è stata, fin dall’inizio, il titolo del romanzo. La intendo in senso letterale, ossia all’essere posseduti dagli dèi. Ho provato a raccontare la storia di una persona che sente di essere abitata dallo Spirito e che, di conseguenza, vive e legge tutta la sua esperienza come risposta alla voce interiore da cui è chiamato. A differenza di altre realtà umane, l’entusiasmo non è una virtù e neppure un tratto del carattere: è il frutto del lavoro che ciascuno può compiere su sé stesso, scoprendo una forza che prima non si sospettava neppure di avere».
E questa forza ha un nome?
«Certo: è lo Spirito Santo».
La cui azione passa anche attraverso i libri?
«Per quanto mi riguarda sì, senz’altro. Non soltanto perché la mia scrittura, come ho già provato a spiegare, nasce sempre dalla lettura. I libri veramente grandi, secondo me, sono quelli che fanno nascere altri libri, trasformando un atto potenzialmente passivo in un’iniziativa attiva e liberante. In questo senso, nella mia formazione sono stati fondamentali i Racconti di un pellegrino russo, il testo del XIX secolo attraverso il quale è giunta in Occidente la tradizione, squisitamente orientale, della cosiddetta “preghiera del cuore”, che è invocazione continua del nome di Gesù, fino all’abbandono totale di sé. Sono le due invenzioni fondamentali della spiritualità cristiana: da una parte, in Occidente, c’è la Liturgia delle Ore, che si basa sulla ripartizione ordinata del tempo; d’altro canto, in Oriente, la preghiera del cuore presuppone la conquista della spazio, inteso anzitutto come spazio corporeo, all’interno del quale si situa il cuore, che è quanto di più profondo costituisce la nostra interiorità. Per dialogare con Dio bisogna prima imparare a dialogare con il nostro cuore».
In «Entusiasmo» si insiste molto sull’umanità del sacerdote, senza reticenze sulla fragilità, perfino sulle tentazioni...
«Ancora oggi, quando si parla di sacerdozio, l’archetipo continua a prevalere sulla realtà . Ci si concentra sul ruolo che il prete dovrebbe ricoprire e non ci si interessa alla sua persona. Essere veramente personali, e cioè consapevoli di sé, è il presupposto indispensabile per maturare un atteggiamento di compassione universale. Quanto alle debolezze, la mia convinzione è che parlare con schiettezza dell’umanità dei sacerdoti e, in genere, dei cristiani sia il miglior servizio che possiamo rendere al cristianesimo e alla Chiesa. Se davvero crediamo di essere figli dell’Incarnazione, non possiamo negare che la divinità si trova proprio in quanto esiste di più umano. Non sono i buoni a meritare la compagnia di Dio, perché Dio sta nelle ombre: nel buio della sofferenza, nel crepuscolo della contraddizione. Il cristianesimo, a sua volta, non è l’adesione a un modello predeterminato, ma lo sforzo di riconoscere e attuare un’armonia fra i diversi aspetti della vita. Non intendo affermare che il male ha diritto a esistere, ma che il cristiano ha il dovere di redimere il male».
Qual è il rapporto fra sacerdozio e poesia?
«Fra profezia e poesia, direi. Ed è un rapporto che vale per ogni cristiano. Il poeta infatti è colui che vede la realtà e la rappresenta. Allo stesso modo, il profeta rende testimonianza nella prossimità, nel prendersi cura del povero e nell’ammettere, in primo luogo, la sua stessa povertà, il suo stesso bisogno di salvezza. Ma senza poesia non può darsi profezia. Non si può cambiare la realtà se prima non la si osserva e noi, oggi, siamo poco propensi all’osservazione. Ci illudiamo di risolvere subito i problemi e così facendo impediamo alla realtà di esprimersi. Ripensando alla mia vita, questo è il rischio che io stesso ho corso durante la missione in Honduras. Ero partito con l’ingenua convinzione di andare ad aiutare gli altri, ma poi la realtà si è imposta con una tale intensità da commuovermi e sorprendermi. A quel punto non ho potuto fare a meno di capire come, più che dare e aiutare, occorra vivere e accogliere. La poesia, in fondo, non è altro che riconoscimento e condivisione di una realtà che ci chiama».
A patto che si voglia ascoltarla.
«Esattamente. Quando parliamo di crisi della lettura, stiamo indicando solo uno trai molti aspetti di una crisi più ampia, che investe la parola e, di conseguenza, l’ascolto. In questo momento più che mai le parole sono dappertutto, ma questa proliferazione sta generando una sfiducia senza precedenti. Non ci fidiamo delle parole perché pensiamo che siano costruzioni intellettualistiche, discorsi lontani dalla nostra quotidianità. Il nucleo più autentico delle parole, invece, è di natura spirituale: si rivolge all’anima, non alla mente. Il dramma è che non ce ne rendiamo più conto».
Come mai?
«Perché manca il silenzio. Se davvero vogliamo tornare a dare importanza alle parole, dobbiamo fondare una cultura che educhi al silenzio. Chi non sa tacere non può scrivere, né tanto meno leggere».