La bandiera granata con l’aereo di Superga l’ha voluta lì, sopra la scrivania, tra Glik sorridente dopo il derby e l’autografo di Darmian, che «quest’anno giocherà nel Manchester United». Perché «ogni estate è la stessa storia, il migliore se ne va». Sandro ha 14 anni e sa cosa significa tifare Toro. Quello strano mix di orgoglio e sofferenza che ti fa tenere gli occhi sempre aperti, che anche quando vinci non sai se crederci davvero. È come sdraiarsi al sole in un giorno di vento. Stai bene ma la notte, per la pelle rossa, faticherai a dormire. Sandro l’ha capito una sera, tornando a casa dopo un banale Torino-Atalanta, quando suo padre l’ha preso per mano davanti a quel che resta del vecchio Filadelfia. Su quel prato, ha detto, è stata scritta la storia del calcio, è cresciuta la leggenda del Grande Torino. Andava così: quando il tifoso-trombettiere Bolmida suonava la carica, Valentino Mazzola si tirava su le maniche. Era il segnale: iniziava il
quarto d’ora granata. Difficile dire perché e come, ma il Toro cambiava marcia, vinceva partite già perse, trasformava in trionfi vittorie di routine. Una squadra di fenomeni quella, con Mazzola su tutti, Mazzola il leader, il trascinatore, l’uomo ovunque. E poi l’inseparabile Loik, Grezar, Maroso, Castigliano, Ballarin e il portiere Bacigalupo, quello che «il pallone è un nemico che non deve entrare in casa». Davanti: Menti, Gabetto e Franco Ossola, nelle foto il terzo in basso da sinistra, con lo sguardo perso chissà dove e i capelli lucidi di brillantina. Il grande Torino in qualche modo iniziò con lui. Era arrivato in granata nel 1939 appena diciottenne, segnalato dall’allenatore del Varese, Antonio Janni al presidente Ferruccio Novo. Cinquantacinque mila lire il costo del cartellino e niente male anche lo stipendio, mille lire al mese, davvero tanto per un ragazzo. Bravo con tutti e due i piedi, tocco di palla sudamericano, Ossola era centravanti ma in quel Torino giocava soprattutto ala sinistra. Era per così dire un’attaccante completo, di quelli che, si direbbe oggi, attaccano gli spazi, che sanno fare reparto. Un eclettismo, una versatilità che col senno di poi gli costarono la nazionale visto che Pozzo puntava sugli specialisti, sui giocatori di ruolo, non “vedeva” bene i jolly. Così non giocò mai con la maglia azzurra addosso. Quella granata, invece, a poco a poco diventava una seconda pelle. Tecnico e altruista, Ossola segnava, anche parecchio, e faceva segnare. Soprattutto Gabetto, il barone, che ne compensava con l’estro e l’esuberanza la riflessività, spesso venata di malinconia. Insieme avevano aperto il bar Vittoria, nel centro di Torino, in via Roma, e il locale era diventato meta di tifosi e di personaggi dello spettacolo, da Macario a Walter Chiari, a Carlo Campanini. Quando, nel maggio 1948, l’Inghilterra travolse l’Italia per 4 a 0, per l’affluenza dei supporter, molti alloggiati in un hotel vicino, il locale restò aperto tre giorni e tre notti consecutivi. Sempre con Gabetto era stato tra i primi a firmare un contratto pubblicitario, per una marca di brillantina, che li pagava non in soldi, perché non si poteva, ma in natura, con lo stesso prodotto che reclamizzavano. Brillantina che Ossola si spalmava in testa, a tubetti interi, prima della partita. In campo però lo notavi soprattutto per il talento cristallino, per la palla che restava incollata al piede, per l’altruismo. Non tirava indietro la gamba, Ossola, non lesinava il
tackle, però non era violento, e non provocava. Per questo quella squalifica, considerata da tutti ingiusta, lo fece soffrire tanto. Era la penultima giornata del torneo 1946-47, contro il Milan. A venti minuti dalla fine, l’arbitro Pizziolo concesse un rigore al Toro suscitando le proteste dei rossoneri. Poi cambiò idea e il
penalty diventò una punizione a due. A quel punto a protestare furono i granata. Ne venne fuori un parapiglia che costò a Ossola otto mesi di squalifica, fino al 28 febbraio 1948. Nel suo secondo referto post gara, infatti, dopo una prima stesura “assolutoria”, l’arbitro lo accusò di averlo colpito. Una mazzata che avrebbe demolito un elefante ma non lui, Franco Ossola da Varese, attaccante con la passione per i francobolli, figlio di Gino l’orefice, fratellastro di Aldo playmaker dell’Ignis Varese, futuro padre di un altro Franco, che però non conoscerà mai. Se possibile, quello stop lo rese ancora più forte e determinato, tanto da mettersi a segnare, al rientro, gol a raffica. Alla fine saranno 86 in 176 partite, l’ultimo il 3 maggio 1949, allo Stadio Nazionale di Lisbona, contro il Benfica. Il giorno prima dello schianto aereo, il giorno prima della tragedia di Superga, il giorno prima della fine di tutto. Contro il colle, ai piedi della Basilica, la storia del Grande Torino, dei cinque scudetti consecutivi, dei dieci granata insieme in nazionale, si consegnava alla leggenda. Trentuno morti nella nebbia torinese, calciatori, staff tecnico, giornalisti ed equipaggio. Una squadra intera cancellata, tranne che negli archivi della nostalgia e, ciò che più conta, nella memoria della gente. Il 4 maggio 1949 si spegneva un sogno e nasceva il vecchio cuore granata, che è un modo diverso di tifare, è passione e disincanto, è rabbia e sofferenza. È orgoglio e senso di appartenenza. È Sandro che domani giocherà con addosso la maglia numero undici, come l’ala sinistra degli immortali, la maglia di Franco Ossola.