L'esperienza fa constatare come l’ospitalità tocchi profondamente l’esistenza e, direi di più, la natura dell’essere umano, al punto che egli potrebbe essere definito, in quanto tale, ospite. Infatti l’essere al mondo ha un carattere così contingente, che l’uomo raccoglie in vario modo nel corso della sua vita segnali che gli trasmettono il senso di una incancellabile provvisorietà, tipica di chi è di passaggio. L’ospitalità del mondo, in realtà, è resa possibile e le sue asprezze mitigate da una accoglienza che l’uomo sperimenta da parte dei suoi simili. Infatti la prima esperienza che l’uomo fa, venendo al mondo, è quella di essere accolto e benvoluto; e quando questo non avviene o egli percepisce che tale accoglienza è parziale, fragile, condizionata, porta a lungo nella sua carne le tracce di una incancellabile carenza. Non gli sarebbe, in alcun modo, consentito condurre la propria vita senza tutti quegli aiuti e servizi che la società appresta in modo tale che i singoli individui possano vivere e svolgere le attività alle quali si sentono chiamati e che scelgono di intraprendere. L’individuo esiste dal momento in cui viene accolto nella società – a cominciare dalla sua prima cellula, la famiglia – e ne diventa, per così dire, ospite; e la precarietà della sua ospitalità viene indubbiamente contrastata dalla capacità che egli esprime di contribuire alla vita di tutti. Ma alla fine egli deve concludere che la totalità sociale precede il singolo individuo e rimane oltre la durata della sua esistenza, scolpendo nel suo intimo la sensazione di provvisorietà tipica dell’ospite di passaggio. In una dimensione ulteriore, l’esperienza di essere costitutivamente ospite l’essere umano la raggiunge quando risale all’origine della sua esistenza. Egli viene al mondo come ospite nel grembo di una donna. Qui egli attinge la radice insieme del suo valore irriducibile e della sua unicità, ma anche della totale imponderabilità della sua esistenza. Tutte le manipolazioni delle biotecnologie non possono cancellare l’inconfondibile originalità di ogni persona umana. Proprio tale originalità dice la sua indisponibilità agli altri e perfino a se stesso, poiché non è stato lui a decidere di venire al mondo e, in un certo senso (nel senso che lui non poteva essere conosciuto nella sua singolarità prima di nascere), nemmeno i suoi genitori. Quanto alla sua origine, l’uomo rimane straniero a se stesso prima che agli altri. Proprio là dove dovrebbe trovare se stesso nella sua identità e nella sua piena legittimità, egli è costretto alla fine a riconoscersi distinto da colei nel cui seno è stato concepito per venire al mondo. Il legame più originario, quello con la madre, mai del tutto emancipato da una sorta di simbiosi, è segnato da una ultima, residua estraneità che denuncia l’essere ospite del figlio, destinato ad una sua figura e ad un percorso di vita separato. L’accresciuta mobilità sociale che intacca le famiglie, anche senza voler considerare gli effetti di una diffusa dissoluzione di tante unioni, accentua questo carattere di estraneità e di provvisoria ospitalità. Il luogo della più profonda intimità e originarietà è il primo annuncio del nostro essere stranieri e ospiti. La coscienza di questa condizione può essere rimossa, nella illusione di avere «quaggiù una città stabile» (Eb 13,14); ma può anche ingenerare un senso di oppressione per via della percezione di precarietà e di insicurezza che trasmette. Siamo chiamati a dare un senso al nostro essere ospiti nell’esistenza e al mondo. Potrebbe apparire facile ricorrere al messaggio cristiano come a un ripiego, per trovarvi una accomodante risposta compensativa, quasi giustapposta, rispetto ad una inadeguatezza umana insuperabile. E in verità che l’indigenza umana, la sua radicale ospitalità, sia insuperabile, è proprio l’esperienza che la fede cristiana mette in luce. Essa fa intendere una cosa più profonda, e cioè che quanto Cristo viene a svelarci e a donarci, non solo rende superabili gli ostacoli che la condizione di peccato ha interposto sul cammino verso il nostro futuro e verso la nostra stessa umana riuscita, ma rivela il senso e le potenzialità dell’umano come voluto da Dio, conferendo loro nuova capacità espressiva. Anche su questo aspetto, del resto, vale quanto scrive
Gaudium et spes 22: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. […] Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione». E volendo attingere alle sorgenti della nostra fede il senso già inscritto nella nostra umanità, mi limito a richiamare tre momenti che, senza artificiosi parallelismi, illuminano le nostre considerazioni sulla ospitalità umana. Il primo momento è lo stesso atto creativo di Dio. Cercando di non cadere in improbabili fantasiose immaginazioni o in astratte elucubrazioni, dobbiamo non di meno affermare con la maggiore precisione possibile che l’azione creatrice di Dio è effetto della sua decisione di fare spazio in sé a qualcosa di diverso da sé. Il mondo e l’umanità non sono una parte di Dio o un suo prolungamento, ma un puro frutto della sua volontà di amore. E Dio non è parte di una totalità più grande in cui stanno insieme Dio e il mondo, perché se esistesse una simile totalità più grande essa sarebbe più grande di Dio. In realtà non esiste nulla fuori di Dio tranne ciò che egli decide liberamente di far venire all’esistenza: è la creazione. Per compiere questo, Dio, in un certo senso (un senso che non può essere rappresentato), ha fatto spazio in sé. La Cabala ebraica adotta la suggestiva immagine dello
zimzum, cioè del ritrarsi di Dio, del suo autolimitarsi, contrarsi e ridursi, per fare spazio alla creazione; noi possiamo, invece, più propriamente affermare che tutto ciò che è stato creato esiste entro lo spazio infinito delle relazioni tra le persone divine. La realtà, infatti, è Dio nelle sue relazioni personali trinitarie. Ciò significa che il mondo e l’umanità esistono perché sono ospiti di Dio; sono il frutto dell’ospitalità di Dio. Il paradosso fondamentale del cristianesimo sta nel capovolgimento di tale paradigma nell’iniziativa divina dell’incarnazione. Colui che ha dato origine alla realtà accogliendola in sé come creazione, chiede e diventa ospite della sua stessa creatura. Ma è un capovolgimento che svela il senso stesso dell’ospitalità divina e ne manifesta tutta la grandezza portandola ad una realizzazione suprema. I Padri della Chiesa lo hanno a più riprese ribadito, quasi a volersi riappropriare e sempre meglio assaporare il dono inaudito e inimmaginabile: il Figlio di Dio si è fatto uomo per rendere gli uomini figli di Dio . È il sorprendente – paradossale, appunto – perfezionamento della creazione come frutto dell’ospitalità divina: grazie all’incarnazione si compie l’inserimento della creatura nel circuito delle relazioni personali trinitarie. Segno e realizzazione in qualche modo anticipata – in altre parole sacramento – di tale ospitalità ultima, destinata a diventare comunione piena e definitiva nel Regno di Dio, è la Chiesa, luogo nel quale si sperimenta nella forma sociale l’ospitalità personale divina, attraverso l’accoglienza nel suo grembo materno, che offre la rigenerazione al fonte del battesimo. L’accoglienza del sacramento è insieme adozione nella relazione filiale al Padre per mezzo del Figlio nello Spirito e inserimento nel corpo ecclesiale: non c’è l’una senza l’altro. Ciò vuol dire che la relazione personale con Dio non può vivere in assenza delle relazioni personali ecclesiali. La nativa accoglienza ecclesiale al fonte battesimale è inizio della accoglienza reciproca di tutti i battezzati come fratelli nella fede. L’ospitalità ecclesiale è sacramento, cioè segno e fattore, della ospitalità divina e di quella umana nella loro interna e mutua reciprocità, che la
Lumen gentium proclama con la famosa espressione secondo cui la Chiesa è «il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano». In realtà ciò che emerge è che la provvisorietà della condizione di ospite è vinta dalla reciprocità dell’accoglienza, dalla realizzazione simultanea dell’identità duplice dell’ospite, che è sia colui che è accolto sia colui che accoglie. L’uomo ha il potere di interrompere la circolarità costitutiva dell’ospitalità tra ospitante e ospitato, con il suo egoismo e, in generale, con il suo peccato. La croce è la forza vincente che Dio contrappone al rifiuto della sua generosa ospitalità, con una volontà ostinata che non rinuncia mai al progetto di vedere trasformato l’
hostis in
hospes, il nemico in ospite. A questo punto, vorrei soffermarmi sul tema dell’arrivo e della presenza di immigrati in mezzo a noi. Ci sono aspetti che esulano dalle nostre competenze, eppure non possiamo metterci di fronte alla questione immigrazione come a un dato di fatto privo di storia e di contesto. E il contesto è costituito dall’insieme di fenomeni socio-politici ed economici che da alcuni decenni hanno prodotto l’effetto – enormemente intensificato rispetto a tempi pure vicini a noi – di indurre masse crescenti di persone a trasmigrare. Come sappiamo, è un movimento che si svolge soprattutto, anche se non esclusivamente, nella direzione che va da paesi poveri a paesi più ricchi. La crisi globale che è in corso non modifica sostanzialmente questo schema, anche se le difficoltà degli stessi paesi ricchi cambiano le disponibilità di chi accoglie e anche le aspettative di chi arriva. Senza pretendere di entrare nel merito di questioni estremamente complesse, è ragionevole comunque pensare che in un mondo globalizzato diventa sempre più difficile gestire la tensione tra chi ha di più e chi ha di meno, se non altro secondo due parametri: benessere materiale e libertà. Come educare alla ospitalità in riferimento specifico alla questione che abbiamo così evocato? Innanzitutto direi che la domanda non può essere posta adeguatamente con un approccio moralistico e nemmeno solo di tipo caritativo; è in gioco qualcosa di più profondo, che tocca l’umano, la sua identità e la sua storia. Rischiando di semplificare troppo, credo che si possano individuare tre indicazioni di massima. Prima ancora, però, è doveroso ribadire quanto a vari livelli è stato, e non da ora, auspicato e talora anche realizzato, e cioè la necessità che i paesi occidentali, e comunque più ricchi, intervengano, mediante iniziative, organismi e politiche adeguate, nei paesi più poveri per favorire lì le condizioni di maggiore sviluppo e di contrasto alla povertà, alla miseria, al sottosviluppo economico e culturale. Detto questo, una prima esigenza consiste nell’accettare la presenza e l’incontro. Sembra banale, ma ho l’impressione che ancora oggi questa esigenza risulti controversa. E la motivazione è semplicemente la dignità della persona, soprattutto in quanto indigente o più debole, e appunto straniero, estraneo, e dunque esposto al disorientamento di chi manca di punti di riferimento, come li trova facilmente chi abita la propria casa e la propria terra. Al senso di comune umanità si aggiunge, per noi credenti, il riconoscimento dell’immagine di Dio, una ragione sufficiente per sentirci interpellati non solo da un vago senso di solidarietà e umanità, ma direttamente dall’alto, da colui da cui veniamo, al cui cospetto viviamo e verso cui andiamo. Dio è in gioco in questa storia, perché in ogni volto è l’impronta del suo volto che non possiamo fare a meno di intravedere. Una seconda esigenza sta nell’accettare di fare un tratto di cammino insieme. Questo significa conoscenza reciproca e accompagnamento. All’accoglienza deve seguire la capacità di gestire la compresenza di culture, credenze ed espressioni religiose diverse. Purtroppo si registrano forme di intolleranza e di conflitto, che talora sfociano anche in manifestazioni violente. L’opera educativa deve tener conto di questa situazione e aiutare a superare paure, pregiudizi e diffidenze, promuovendo la mutua conoscenza, il dialogo e la collaborazione. C’è infine una terza esigenza da salvaguardare. Mi riferisco a quella che scaturisce dalle insuperabili asimmetrie sopra richiamate. È necessario agli stessi immigrati avere una idea chiara della storia e della identità del paese in cui arrivano, perché solo così possono orientarsi e stabilire una relazione feconda, in cui anche la loro identità può trovare le condizioni per essere salvaguardata senza chiusure in ghetti e senza mescolanze affrettate, che producono soltanto spaesamento e alienazione. Siamo ben consapevoli che l’identità culturale non è un dato da interpretare in senso fissista, e tuttavia il suo carattere relazionale non autorizza a considerarla debole e intercambiabile con leggerezza, poiché ne andrebbe dell’equilibrio delle persone e dell’intera collettività. Anche qui deve valere il fatto che dalla comune uguale dignità delle persone e delle culture non discende lo stravolgimento della configurazione culturale, e quindi sociale e istituzionale, raggiunta. In questo senso, indicare nella costituzione repubblicana italiana una cornice ideale e istituzionale valida per tutti, ha il valore di creare le condizioni essenziali per un reale e ordinato processo di integrazione e di crescita condivisa. Ogni identità dà la misura della sua forza quando è capace di incontrare e accogliere l’altro.