giovedì 2 luglio 2009
Un saggio mette sotto accusa il mondo della cooperazione: in molti casi avrebbe aiutato soltanto i regimi autoritari.
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Si chiama dilemma dell’operatore umanitario. Portare aiuti in zone di guerra sempre e comunque, aiutando anche gli aggressori, i “cattivi”, oppure andarsene abbandonando tutti per non rischiare di aiutare le persone sbagliate? Sulla risposta, che finora è stata rimanere per salvare il maggior numero di vite umane, è nata L’industria della solidarietà, su cui Linda Polman ha scritto un provocatorio volume (Bruno Mondadori, pp. 214, euro 16). Libro efficace, capace di far riflettere svelando interessanti retroscena. Non un “libro nero” delle ong, ma una critica per certi versi sana a un sistema cui affidiamo i nostri soldi perché siano utilizzati a fin di bene. Tuttavia è un volume appassionato, ma incompleto. Polman la prende alla larga, da metà Ottocento, quando Florence Nightingale, l’infermiera che con toccanti corrispondenze sulla stampa britannica, raccontò come morivano in Crimea per mancanza di cure le truppe ferite di Sua Maestà si oppose alla creazione di una neutrale Croce Rossa da parte di Henri Dunant. Per Nightingale l’aiuto umanitario generico poteva trasformarsi in improprio strumento di guerra, prolungandola con viveri e medicinali al nemico. È la stessa idea di Linda Polman. Che, pur riconoscendo di non avere risposte alla drammatica questione di fondo, racconta con una serie di reportage da campi profughi e aree di crisi errori e abbagli degli ultimi 20 anni, da quando il crollo del muro di Berlino e la diffusione dei mass media hanno globalizzato l’informazione e le superpotenze si sono ritirate da molti angoli caldi del pianeta. Sono quindi spariti gli eserciti regolari, le guerre si sono trasformate in conflitti a bassa intensità senza uniformi a distinguere civili neutrali e combattenti. Le immagini di conflitti e i disastri hanno toccato miliardi di coscienze, suscitando l’impulso in privati cittadini e aziende all’aiuto immediato al prossimo, con una donazione in denaro o generi di prima necessità o un sms. Per Polman la galleria di errori comprende l’aiuto a regimi autoritari che hanno manipolato ad arte alcune emergenze e quello a criminali di guerra. Spesso le ong sarebbero state complici, pur di aiutare la popolazione e far fiorire quella che per l’università americana Johns Hopkins è la quinta economia mondiale, ottenuta sommando tutte le organizzazioni umanitarie nazionali e internazionali aumentate in modo esponenziale. Polman inizia il racconto a Goma, tra Ruanda e l’allora Zaire, alla metà del decennio scorso, quando l’arrivo di decine di migliaia di hutu nei campi allestiti dalle Nazioni unite attivò la macchina dei soccorsi. In poco tempo tutte le sigle della società civile internazionale esistenti si precipitarono in loco con programmi di aiuti e tonnellate di generi di prima necessità. Peccato che gli hutu fossero in realtà i colpevoli del più atroce genocidio dopo quello nazista, quello perpetrato a colpi di machete contro i tutsi, e che fuggissero dalla giusta punizione in casa. E che in quel campo la situazione ben presto degenerasse, con squadroni della morte che di notte regolavano i conti con i disertori e che si impadronirono dell’assistenza umanitaria. Fu, accusa Polman, un documentario della Bbc con uso acritico di alcune ong come fonti ad aprire la diga degli aiuti. E da quel momento nella cooperazione entrò la logica del marketing con magliette, cappellini, adesivi ovunque per rivelare la propria presenza e chiedere offerte. Con stipendi d’oro per dirigenti delle organizzazioni maggiori. Storture ripetutesi in Bosnia e Kosovo, dove una quota degli aiuti venivano sistematicamente prelevata dalle milizie per entrare in un territorio. O in Sierra Leone e Liberia, dove le ong evangeliche americane si disputavano, strappandoli alle famiglie d’origine, i piccoli mutilati dai machete della soldataglia o gli ex bambini soldato, per portarli Oltreoceano a studiare e magari farli adottare estorcendo l’autorizzazione con l’inganno. Impossibile non essere d’accordo fin qui. Ma il libro pecca di amnesie. Anzitutto le ong devono sì competere tra loro per accaparrarsi aiuti di stati e privati, ma perché i governi hanno stabilito di limitarsi a finanziare progetti. Ed è un bene, visti i precedenti della cooperazione italiana in Somalia, ad esempio. Quanto ai salari, la denuncia tocca le grandi ong anglosassoni e il mondo Onu. Il mondo cattolico ad esempio, poco citato peraltro, ricorre a un mix di volontariato e professionalità e il tetto dei salari relativamente bassi seleziona persone motivate. In genere da ogni offerta si deduce una percentuale per i costi fissi che non supera il 20%, mentre grandi sigle fanno l’opposto. Quanto alle accuse di complicità dei media con le organizzazioni umanitarie, da noi tira ben altra aria, purtroppo. Ultimo aspetto trascurato da Polman, il ruolo svolto delle ong nella democratizzazione dei paesi meno sviluppati. Non a caso i regimi più duri le espellono quando vogliono regolare i conti con gli oppositori. E alcuni big non agiscono in determinati conflitti se non c’è chiarezza. Insomma, il rischio delle critiche generalizzate è buttare il bambino con l’acqua sporca. Quanto al dilemma umanitario, si può anche ribaltare: chi non pagherebbe una tangente pur di salvare una vita innocente?
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