Per conoscere la storia del suo ultimo film, dovremo aspettare di vederlo. Ermanno Olmi non vuole rovinare la sorpresa: «Sarebbe come sbirciare dietro le tende di un sipario ancora chiuso» dice con quella dolcezza che ti inchioda alle sue parole, sempre precise, lucide, quelle giuste al momento giusto. A Bari il sole splende con un calore primaverile, ma all’interno del Palaflorio una serie di lampi artificiali simula un temporale. Siamo sul set di
Il villaggio di cartone, il film dedicato a Suso Cecchi D’Amico che Olmi girerà nel capoluogo pugliese fino al 18 dicembre con un budget di quattro milioni di euro. Produce Luigi Musini per Cinemaundici in collaborazione con Rai Cinema, Edison (che beneficia del tax credit) e con Apulia Film Commission e Regione Puglia, presieduta da Nichi Vendola, che ieri si è detto onorato di contribuire alla realizzazione dell’opera di un autore capace di aiutarci a «trovare la cifra della nostra decenza».Aveva annunciato il suo addio al cinema di finzione, aveva assicurato che si sarebbe dedicato esclusivamente ai documentari, e invece l’ottantenne Olmi, che pensava di averci salutato con
Centochiodi (ma poi sono arrivati
Terra madre e
Rupi del vino), ha deciso di tornare dietro la macchina da presa per raccontare l’avventura umana di un vecchio prete (Michael Lonsdale, protagonista anche di
Uomini di Dio) che accoglie nella sua vecchia chiesa fatiscente un gruppo di immigrati africani. Rutger Hauer è il suo sagrestano, Massimo De Francovich un medico, Alessandro Haber un uomo in divisa, ma i veri protagonisti del film, completamente girato all’interno di una chiesa e della sua sagrestia, ricostruiti a grandezza naturale nel palazzetto dello sport, sono quei non professionisti arrivati da tutta Italia, e prima ancora da Senegal, Nigeria, Giamaica, Eritrea, Cuba, Camerun. «È andata così – ha raccontato Olmi per spiegare il suo ritorno al set –, sono inciampato e quella caduta mi è costata 70 giorni a letto. Tempo fa avevo un progetto dal titolo
Era qui un momento fa. Sapete, io ho una vera e propria ossessione per Cristo, il più luminoso tra tutte le figure che ancora oggi ci illuminano, e pensavo di viaggiare per il Mediterraneo in cerca delle sue tracce in un gesto, una frase, un disagio. Non potendo muovermi e pensando al mio futuro, non quello segnato dall’orologio, ma quello del cuore, mi sono detto che forse avrei potuto portare a me ciò che pensavo di trovare in viaggio. Ho immaginato incontri, rapporti, fisionomie e li ho messi insieme per riflettere su come la diversità sia un’imperdibile occasione per rintracciare in essa motivi di identificazione comune. Oggi l’unica proposta degna di civiltà millenarie è quella di conoscersi per superare barriere e conflitti». E sul perché, tra tanti immigrati, abbia scelto solo africani, Olmi spiega: «Una volta i medici consigliavano ai convalescenti di tornare nella propria terra natale per una completa guarigione. Ecco, l’africano è l’uomo delle origini ed è solo tornando a casa che risolveremo i nostri problemi».L’amore per il prossimo, il dialogo tra le religioni e la critica alle istituzioni «quando dimenticano il motivo per cui sono diventate tali» sono dunque il cuore di questo film che affronta in maniera «rivoluzionaria» il tema della carità: «Abbiamo l’opportunità di risvegliare in noi – dice Olmi – un sentimento che ci è stato sottratto per parecchi anni. La carità e il perdono sono la scoperta nell’altro di un progetto di felicità, atti d’amore per ricevere amore. Il protagonista del film scopre tutto questo piuttosto tardi nella sua vita, ma anche l’ultimo istante può essere l’inizio di un progetto futuro».